Renato Romano

dirigente amministrativo Corte d’Appello di Trieste

presidente nazionale Associazione Dirigenti Ministero Giustizia

trascrizione dell’intervento al congresso straordinario dell’ANM

Napoli, 24 settembre 2004

 

Io credo sia significativo che l’Associazione Nazionale Magistrati abbia voluto dedicare un’intera sessione del proprio congresso straordinario alla giustizia come servizio.

Penso che questa scelta ci offra una grande opportunità: provare a riarticolare lo scontro in atto intorno ai temi dell’esercizio della giurisdizione, in una prospettiva più utile. Una prospettiva che ricollochi con forza al centro della discussione i cittadini. Il diritto dei cittadini ad una giustizia efficiente ed efficace. In grado cioè, secondo quanto auspicato anche da Fassino questa mattina, di esercitare pienamente il controllo di legalità, di assicurare una composizione rapida e soddisfacente delle liti.

Dico questo non perché ritenga che lo scontro in atto sulla giustizia sia pretestuoso. E’ da oltre un decennio che la giustizia costituisce uno dei punti sensibili, degli snodi, del dibattito politico ed istituzionale in questo paese. Ed io non ritengo che ciò sia un male in sé. Anzi, probabilmente, se non ci fosse stata una tensione così forte attorno ai temi dell’esercizio della giurisdizione, non saremmo riusciti, nel corso degli anni novanta, a convogliare risorse così ingenti verso l’organizzazione giudiziaria. Non saremmo riusciti a sostenere lo straordinario sforzo di riforma e riorganizzazione che pur abbiamo compiuto.

Io ho però l’impressione che, da un po’ di tempo a questa parte, le cose stiano cambiando. Mi sembra che le modalità con cui si esercita lo scontro intorno alla giustizia siano oggi tali da esporre a un forte rischio la condivisione stessa della giustizia come valore. Credo che la radicalità delle contrapposizioni in atto, i toni inusitati con cui vengono interpretate, stiano esponendo il nostro sistema ad una destabilizzazione dagli esiti imprevedibili.

Il rischio è che la crisi della giustizia come servizio si saldi alla crisi della giustizia come valore, facendo venir meno quel consenso civile, quella fiducia, intorno all’esercizio della giurisdizione, che è stato un fattore non secondario dei successi registrati nella lotta contro la minaccia terrorista, contro gli attacchi della criminalità organizzata, contro i fenomeni di corruzione politica.

Noi dirigenti dello Stato con incarichi nell’amministrazione giudiziaria viviamo naturalmente con particolare travaglio la degenerazione delle modalità dello scontro sulla giustizia e le conseguenze che determina.

Per un verso noi, gestendo quotidianamente una parte significativa dell’organizzazione giudiziaria, concorriamo ad assicurare le condizioni per l’esercizio della giurisdizione. Una giurisdizione che, per mandato professionale, desideriamo forte e autonoma. Condividiamo così con la magistratura la stessa mission. Siamo partecipi dei medesimi successi ed insuccessi. Siamo testimoni del sacrificio e del disinteresse della grandissima parte dei magistrati. Per altro verso noi, in quanto dirigenti dello Stato, operiamo per il perseguimento degli obiettivi d’amministrazione posti da chi esercita la funzione di governo. E siamo portati professionalmente a farci carico delle compatibilità di carattere economico e gestionale che la vicenda nazionale impone.

Siamo insomma situati in uno snodo che, se procura -a tratti- tensione e travaglio, offre però l’opportunità di un punto di vista utile su quello che è possibile fare. Specie se adottiamo l’angolazione della giustizia come servizio.

Se è questa la prospettiva che assumiamo resta facile cogliere quanto, nell’ultimo decennio, abbiamo realizzato.

Basti pensare, dall’inizio degli anni novanta, alla novellazione nell’ambito del processo civile, alla creazione delle sezioni stralcio, all’istituzione del Giudice di Pace. E poi la realizzazione del Giudice Unico di primo grado (con la riduzione degli Uffici Giudiziari da 2300 a 1500), la depenalizzazione, il conferimento delle competenze penali ai Giudici di Pace. E –ancora- il forte impulso allo sviluppo delle tecnologie e la centralità assegnata alle politiche formative. Pensate –soltanto- che ben il 40% delle imprese private -di dimensioni paragonabili alla nostra amministrazione giudiziaria- non possiede alcuna struttura autonoma interna destinata alla formazione. Ebbene noi abbiamo, sia a livello magistratuale che a livello di personale amministrativo, in ogni distretto, figure specializzate in grado di gestire, promuovere, formare. Non è una cosa di poco conto. Pensate a quello che è stato fatto nell’ambito del servizio statistiche. Dieci anni fa le nostre statistiche avevano un’approssimazione del 70%. Ce ne siamo resi conto quando abbiamo provato a contare il numero dei processi civili pendenti nel momento in cui vennero istituite le sezioni stralcio: risultava fossero un milione, le abbiamo contate ed erano 700mila. Adesso la situazione è ben diversa. Il servizio statistiche non soltanto assembla dati ma è in grado di offrire un monitoraggio attento ad orientare lo sviluppo della nostra organizzazione.

Insomma abbiamo conseguito risultati importanti e già nel 2000 abbiamo toccato una prima inversione di tendenza registrando la definizione di 3milioni e 300mila processi cilvili contro una sopravvenienza di 2milioni e 250mila.

Abbiamo conseguito risultati importanti, ma che ottengono poco ascolto, sovrastati –come sono- dal rumore di sottofondo del continuo incrociare di spade, su contese sicuramente di grande momento, ma rispetto a cui il grande assente sembra essere a volte proprio il cittadino. Il suo bisogno di tutela giurisdizionale.

Allora che cosa fare?

Io credo che ci sia sempre la possibilità di avviare una discussione quando ciò sia utile al paese. Quindi, storicamente necessario. Esistono tanti temi su cui come dirigenti amministrativi ci siamo confrontati positivamente con la magistratura associata. Con esiti sempre interessanti. Faccio un solo esempio: la proposta di istituzione dell’ufficio del giudice, che corrisponde ad una storica rivendicazione della magistratura. Noi, che di mestiere facciamo i gestori di risorse pubbliche, abbiamo sempre considerato con una certa diffidenza l’affidamento direttamente ai magistrati di risorse amministrative. E non tanto per rivendicare un potere ma, innanzitutto, perché pensiamo che non necessariamente la capacità nell’esercizio della giurisdizione renda capaci di gestire risorse umane. Però non ci siamo reciprocamente sottratti al confronto proprio su un tema potenzialmente così spinoso. E abbiamo verificato che ragionando sulle cose, non individuando questo ufficio come un luogo fisico, come un pezzo di organizzazione, è stato possibile allargare l’ambito delle idee condivise. Abbiamo iniziato a parlare prima di ufficio "per" il giudice, poi di ufficio per il processo, cioè di un luogo all’interno del quale creare energie positive tra le varie professionalità che determinano il buono o cattivo esercizio della giurisdizione. Insomma ci siamo incontrati e ci incontreremo ancora. Per discutere e trovare soluzioni. Persuasi come siamo che la strada del confronto sia obbligata. E non per le sorti di due ceti professionali ma perché occorre al miglioramento del servizio giustizia.

Assumere questo punto di vista, significa caricarsi dello sforzo enorme di ripensare criticamente l’insieme della nostra organizzazione e del nostro modo di lavorare.

La domanda che poniamo è: può la sola cultura della giurisdizione farsi carico di tutto questo sforzo?

A questa domanda noi non ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi pensiamo che la cultura della giurisdizione non detenga da sola tutte le carte per fronteggiare uno cimento del genere. E abbia pertanto bisogno di coniugarsi,di integrarsi, con una moderna e laica cultura del management pubblico che noi dirigenti amministrativi pensiamo, chiaramente non in via esclusiva, di detenere. E che abbiamo desiderio di mettere a disposizione. Questo è, in fondo, il saluto e l’augurio che vi rivolgiamo.

Renato Romano