Le garanzie del credito nelle procedure concorsuali e nella fase esecutiva.

Giovanni Sansone, giudice presso il Tribunale di Trieste

Schema di relazione svolta all’incontro di studio del C.S.M. "Responsabilità patrimoniale e garanzie" tenutosi a Roma il 30/09 – 2/10/2002.

1 – Garanzie dei creditori ed allocazione efficiente del credito.

Alcune considerazioni preliminari alle riflessioni che cercherò di svolgere sul tema che mi è stato assegnato mi sembrano opportune. Esse riguardano le forme di tutela contrattuale del creditore dal rischio di insolvenza del debitore e la loro incidenza sull’allocazione efficiente del credito. Ritengo che un rapido esame di questi aspetti possa consentire al giudice di acquisire quella "consapevolezza dei termini culturali, dei problemi, dei valori sottesi ad ogni scelta operativa" e quindi di pervenire alla soluzione più appropriata tra quelle potenzialmente atte a perseguire scopi di giustizia. E’ in quest’ottica, del resto, che il Comitato Scientifico nella presentazione dell’incontro di studio segnala le opportunità ricognitive che nella soluzione di questi problemi può offrire "un approccio di tipo giuridico economico".

E’ ben noto che il credito assume un ruolo cruciale per la vita e lo sviluppo dell’impresa, soprattutto per le nostre la cui struttura finanziaria è orientata verso l’indebitamento bancario. Sul presupposto che il credito tanto più facilmente viene erogato quanto più pronto e sicuro è il suo recupero, l’imprenditore insolvente è soggetto al fallimento che tende a realizzare il soddisfacimento dei creditori attraverso la liquidazione del patrimonio del debitore. Poiché la liquidazione del patrimonio dell’imprenditore insolvente quasi mai assicura l’integrale soddisfacimento di tutti i creditori, quelli "più forti" tra questi si tutelano contro il rischio d’insolvenza del debitore richiedendo il rilascio di garanzie che assicurino il soddisfacimento preferenziale del proprio credito su una componente determinata del patrimonio del debitore. E’ un dato di comune esperienza che ad essere garantiti sono quasi esclusivamente i creditori finanziari mentre raramente lo sono i creditori commerciali. Si ritiene che ciò dipenda non solo dalla forza economica dei primi, ma anche dal fatto che i creditori commerciali hanno un orizzonte temporale assai breve. Si rileva che le operazioni negoziali che questa categoria di creditori conclude con l’imprenditore sono destinate in genere ad esaurirsi in novanta, massimo centottanta giorni, per cui " la più importante tutela per il creditore commerciale consiste nel seguire gli eventi, nel conoscere il suo debitore, nel riconoscere velocemente eventuali rallentamenti nei pagamenti ossia nel segno più eloquente di una scrematura del capitale circolante…., nel tormentare, nel blandire senza sosta il debitore inadempiente, nell’assicurarsi che il primo pagamento successivo non sia fatto ad altri creditori."-

Il creditore commerciale può sottrarsi al rischio d’insolvenza del debitore ritardando la propria prestazione, rifiutandosi di eseguirla finché non gli viene assicurato il pagamento. Trattenendo la propria prestazione il creditore commerciale s’è procurato una garanzia che il legislatore riconosce regolando la sorte dei rapporti pendenti nel fallimento. La disciplina dei rapporti pendenti nel fallimento autorizza il contraente in bonis a rifiutare la propria prestazione se non gli viene assicurato il soddisfacimento integrale della prestazione di cui ha diritto. La banca invece non può fruire di questa forma di autotutela che è rappresentata dalla c.d. exceptio inadimpleti contractus, art. 1460 c.c.. Questa impossibilità di tutela è in tutti contratti di credito destinati per natura a svolgersi in una dimensione temporale. L’inadempimento del cliente si manifesta alla scadenza, e comunque dopo che la banca da tempo ha eseguito la sua prestazione.

Alla prestazione di una garanzia reale l’imprenditore può essere indotto non solo quando questo è l’unico modo per ottenere credito, ma anche quando la prestazione di una garanzia reale permette di ottenere più credito a condizioni più favorevoli.- Nella pratica, infatti, attraverso la prestazione di una garanzia reale l’imprenditore ottiene più credito di quello che potrebbe avere in presenza di un patrimonio genericamente esposto all’attacco di tutti i creditori.

La garanzia reale ha così la funzione di consentire di ottenere più credito a costo minore, posto che l’interesse sconta non solo la rendita del denaro, ma anche il rischio di insolvenza del debitore.

Il rilascio della garanzia reale, però, mentre neutralizza il rischio di insolvenza del debitore per i creditori garantiti, sposta ed accentua lo stesso rischio in danno degli altri creditori, quelli c.d. destinati al chirografo.

E qui s’innesta il problema se le garanzie reali siano efficienti, e cioè se la concessione di una garanzia reale sia un fatto che aumenta il benessere complessivo del debitore e dei creditori o se sia un fatto che accresce il benessere del beneficiario della garanzia ma diminuisce quello degli altri.

Gli aziendalisti e la dottrina commercialistica più attenta rilevano che la decisione della banca di finanziare un’impresa unicamente sulla base delle garanzie reali o extra aziendali, sfuggendo così alla necessità di istruttorie adeguate che consentano di valutare la meritevolezza dell’affidato, genera esternalizzazioni negative per gli altri creditori ed altera l’equilibrio del sistema economico. Si sottolinea che così operando nell’allocazione del credito, la banca viene meno alla sua funzione di selezionare i soggetti da affidare, non concede credito ai programmi imprenditoriali meritevoli, non privilegia il vaglio prospettico, non realizza, in sostanza, rapporti efficienti.

La responsabilità del sistema finanziario è proprio quella di sapere indirizzare le risorse verso gli impieghi più efficienti, cioè quelli a più alta produttività, verso progetti che presentano la massima redditività attesa.

La valutazione del progetto industriale da finanziare richiede, però, una completa informazione. Nell’attività finanziaria l’informazione assume un ruolo cruciale.

Ebbene, è da considerare che la banca ha una conoscenza dell’impresa che chiede di essere finanziata molto più limitata di quella che possiede la stessa impresa che chiede il finanziamento. La relativa opacità dell’impresa, soprattutto di quella piccola, rende difficile la valutazione del rischio di credito. E così i finanziatori sono indotti a compensare lo svantaggio informativo sulla situazione dell’impresa in conseguenza del tasso di opacità che la caratterizza, attraverso il sistema delle garanzie reali.-

E’ però da tenere presente che il sistema finanziario richiede informazione, ma produce anche informazione. Nel finanziamento bancario c’è un’informazione prodotta: il fatto di aver ottenuto un fido può essere considerato segnale importante per chi vuole entrare in rapporti con l’impresa finanziata. In questo senso le banche vengono ad assumere la funzione di generare informazioni sulla situazione delle imprese. Un sistema finanziario troppo accondiscendente nella valutazione del merito del credito e incline a finanziare le imprese sulla base delle garanzie reali che queste riescono a prestare, è in certa misura responsabile del costo delle crisi aziendali. Così facendo la banca viene meno alla sua funzione di "disciplina" nei confronti delle imprese; manca cioè ad esercitare, attraverso il rifiuto motivato del finanziamento o attraverso la sua riproposizione in termini tecnici ed economici differenti,quel ruolo critico che deve portare l’impresa almeno in certi casi, a ripensare le proprie scelte strategiche. Solo così operando la banca diventa "l’eforo della economia di scambio".

La consapevolezza che la garanzia più efficiente è data dall’adeguato dimensionamento del capitale di rischio, che rappresenta la garanzia per tutti i creditori, e da una avveduta gestione dell’impresa, ha favorito la elaborazione di nuove forme di tutela contrattuale da parte dei creditori finanziari le quali meritano attenzione. Si tratta di pattuizioni che intervengono in genere tra i più importanti creditori finanziari e l’impresa le quali intervenendo sui comportamenti del debitore, realizzano un razionale equilibrio nel rapporto tra impresa e sistema finanziario nella combinazione tra rischio assunto e capacità di indirizzo e di controllo. Si tratta di pattuizioni che riguardano generalmente l’impegno della società debitrice a rispettare un determinato ratio finanziario, come ad es. il rapporto tra debito e mezzi propri, l’impegno a non distribuire per alcuni anni utili ai soci; l’impegno a contenere il peso degli interessi passivi all’interno di una certa percentuale del fatturato. Altri impegni possono riguardare il divieto di rilasciare garanzie su altri finanziamenti che dovessero essere contratti; la postergazione di altri prestiti concessi dai soci. Per volontà delle parti l’inadempimento di questi obblighi non provoca la risoluzione del contratto, ma la rinegoziazione del finanziamento.

Orbene queste forme di autotutela elaborate dalle banche realizzano rapporti efficienti in quanto il finanziamento viene concesso e mantenuto dall’istituto creditizio sulla base di un attento e continuo monitoraggio da cui risulti la meritevolezza dell’affidato sia al momento della costituzione sia nel corso del rapporto creditizio. A differenza delle garanzie reali che nella misura in cui tutelano dal rischio dell’insolvenza il creditore che ne beneficia danneggia gli altri creditori sui quali viene spostato il rischio di insolvenza del debitore, l’autotutela in esame protegge non solo le banche, ma anche i creditori "deboli", ossia privi della forza o della avvedutezza necessarie per auto tutelarsi contrattualmente.

In definitiva il monitoraggio, quale forma di autotutela del creditore che ha i mezzi e la professionalità per attuarlo, non serve esclusivamente al singolo creditore, ma serve al corretto funzionamento dell’intero sistema, e quindi alla possibilità che il credito venga allocato esattamente là dove può avere gli impieghi più efficienti favorendo così lo sviluppo del sistema economico.

Si comprende, allora, come oggi, anche in considerazione del fatto che gli investimenti aziendali assumono sempre più spesso natura immateriale, le garanzie reali vengono ritenute, con riguardo al finanziamento delle imprese, come fatto relativamente eccezionale, la cui costituzione deve essere sottoposta ad uno scrutinio particolarmente severo. Ma a maggior ragione si comprende la severità con cui vengono scrutinate dagli organi fallimentari le garanzie rilasciate dal fallito che provocando una riduzione della garanzia patrimoniale, fanno gravare sui creditori destinati al chirografo gli effetti dell’insolvenza.

2 – L’accertamento del diritto del creditore di partecipare al riparto con prelazione.

Nell’esecuzione concorsuale il diritto dei singoli creditori di partecipare al riparto con o senza prelazione su determinate componenti dell’attivo del patrimonio del fallito viene regolato nel giudizio di accertamento dello stato passivo. In questo giudizio, quindi, vengono scrutinate le garanzie rilasciate dal fallito e viene, in sostanza, risolto il conflitto di interessi fra i singoli creditori e la collettività dei creditori.

Perché nel giudizio di verificazione dello stato passivo venga accertato il diritto del creditore al riparto col riconoscimento della prelazione, non è sufficiente che il credito e la prelazione risultino esistenti e fondati su titoli validi, occorrendo altresì che siano opponibili perché anteriori al fallimento ed efficaci nei confronti dei creditori perché non derivanti da atti pregiudizievoli ex art. 64 ss.L.F.. Il giudice delegato, approvando lo stato passivo, deve quindi accertare incidentalmente la non revocabilità del titolo e della prelazione sia ai sensi degli artt. 64 ss. L.F., sia ai sensi dell’art. 2901 c.c..

Occorre poi considerare che in conseguenza degli effetti preclusivi che nell’ambito della procedura fallimentare spiegano i provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di verifica dei crediti quando non abbiano formato oggetto di opposizione, al curatore è precluso di avviare un giudizio contenzioso ordinario per ottenere la revoca del credito o della prelazione che sia stato riconosciuto dal giudice delegato nel giudizio di verificazione dello stato passivo. E’ invece discussa la possibilità per il creditore di dedurre col procedimento di impugnazione dei crediti ammessi la revocabilità del titolo di credito o della prelazione. L’opinione corrente tende ad escludere tale possibilità sul rilievo che trattasi di potere che spetta soltanto al curatore. Una dottrina, tuttavia, muovendo dalla premessa che la revocabilità del titolo può essere rilevata d’ufficio dal giudice delegato nella fase di verificazione dello stato passivo e che gli errori di valutazione del giudice delegato, favoriti anche dal carattere sommario di detta fase, trovano il loro correttivo nella proponibilità di un giudizio contenzioso ordinario, avviato per l’appunto con l’impugnazione, ritiene che il correttivo debba operare in tutti i casi in cui la statuizione incide sul diritto dei creditori di escludere dal concorso i creditori ammessi (Guglielmucci, Lezioni di diritto fallimentare 2000 p. 244). Si osserva, al riguardo, che a prescindere dalla circostanza che la legittimazione ad impugnare i crediti ammessi è attribuita ai creditori uti singuli, anziché al curatore, i loro poteri non possono essere diversi e minori di quelli che, altrimenti, il curatore avrebbe potuto esercitare nel loro interesse (nel senso che il creditore impugnante può "esercitare tutte le azioni volte ad escludere o postergare i crediti ammessi, "ivi compresa l’azione revocatoria" v. Cass. 5 IX 1998 n.8827).

Con riguardo, quindi, alle garanzie del credito nel fallimento, i profili che rilevano sono essenzialmente due: quello della opponibilità e quello della revocabilità del diritto di prelazione.

3 – L’opponibilità della garanzia.

Poiché il diritto di partecipare al riparto spetta soltanto ai creditori anteriori al fallimento, se il credito è fondato su prova scritta la data della scrittura (e in particolare la sua anteriorità al fallimento) deve essere certa e opponibile nei riguardi dei terzi secondo le regole dell’art. 2704.

Il problema non sempre è stato risolto univocamente, ma le sezioni unite della Corte di cassazione hanno di recente riaffermato il principio della necessità della data certa rilevando che "la norma che sancisce un’opponibilità ai creditori degli atti computi del fallito solo se compiuti prima della dichiarazione di fallimento postula che detti creditori, che sono terzi rispetto ai suddetti atti, vantino una situazione di tutela in base ad un’altra norma, qual è quella dell’art. 52, che dispone che il fallimento apre il concorso dei creditori nel patrimonio del fallito, di guisa che quest’ultima deve essere letta come se dicesse apre il concorso dei creditori anteriori. Fra questi creditori e quelli posteriori al fallimento si crea un conflitto giuridico, il quale emerge in sede di formazione della massa passiva (artt. 92 ss.), di opposizione ex art. 98 e di impugnazione ex art. 100 … la norma che sempre dovrà essere tenuta presente per stabilire della anteriorità, non può che essere quella più rigorosa, vale a dire quella dell’art. 2704, comma 1°, che tutela la posizione dei contrinteressati, e cioè dei creditori anteriori, in conflitto con quelli posteriori" (Cass., se. Un.,28 agosto 1990, n. 8879; Conf. Cass. 26-VI –1996 n. 5920; Cass. 2-IV-1996 in 3050).

Hanno data certa gli atti pubblici e le scritture private autenticate. La data delle scritture private non autenticate è certa, secondo quanto dispone l’art- 2704 c.c., dal giorno della registrazione (presso l’ufficio atti civili dell’amministrazione finanziaria dello Stato, al quale determinati atti vanno presentati al pagamento dell’imposta di registro), dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici, da quello della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica del sottoscrittore o da quello "in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento". Secondo la giurisprudenza è idonea ad attribuire data certa l’apposizione del timbro postale sul documento, ma non sulla busta nella quale sia stato inserito (cfr. Cass. 24 agosto 1990, n. 8692; Cass. 11 gennaio 1983, n. 186).

Per la prova del credito, peraltro, non sempre è necessaria la scrittura. Se la scrittura non è richiesta ad substantiam (ad esempio cambiale) o ad probationem (ad esempio transazione), la prova può essere data ordinariamente con uno qualunque dei mezzi di prova previsti negli artt. 2699 ss. c.c.. Tuttavia nel giudizio di accertamento dello stato passivo, anche nelle fasi eventuali di opposizione ed impugnazione, non sono ammissibili i mezzi di prova che suppongono la capacità di disporre (confessione, giuramento).

Il problema della data certa si pone essenzialmente per le garanzie personali rilasciate dal fallito per debiti altrui e, in modo diverso, per la prelazione del creditore pignoratizio. Non si pone invece per le ipoteche in considerazione delle particolari forme che ne accompagnano la nascita.

Per le garanzie personali per debiti altrui il problema va risolto sulla base delle regole fissate dall’art. 2704 c.c. se l’esistenza della garanzia viene fondata su prova scritta.

Con riguardo alla cessione di crediti occorre precisare che la cessione non produce con pienezza la totalità dei suoi effetti fino a quando non venga notificata al ceduto o da questi accettata. E poiché l’art. 45 L.f. sancisce che sono "senza effetto rispetto ai creditori" le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi se compiuti dopo la data della dichiarazione di fallimento, la cessione del credito anche se provata con scrittura avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento non è opponibile ai creditori se non è stata notificata al debitore ceduto o da questi accetta con atto di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento. Se si tratta di crediti futuri è necessario non solo che tali crediti siano sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento, ma anche che essi siano divenuti esigibili prima di tale data e che siano altresì stati singolarmente notificati o accettati dal debitore con atto avente data certa ( Cass. 96/9997).

Per la prelazione del creditore pignoratizio, invece, l’art. 2787 comma 4° c.c., in deroga alle regole fissate dall’art. 2704, prevede che la data della scrittura può essere accertata con ogni mezzo di prova se il pegno risulta da polizza o da altra scrittura di enti che, debitamente autorizzati, compiono professionalmente operazioni di credito su pegno. Per opinione ormai unanime anche gli istituti di credito in genere rientrano fra i predetti enti; in tal senso si è pronunciata pure la Cassazione a Sezioni Unite (sent. N. 1333 del 15-IV-1976) la quale ha ritenuto sufficiente la "generica" autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria per l’abilitazione, ancorché in via non esclusiva, alle operazioni di credito su pegno.

Conseguentemente si ritiene che le banche possono fornire la prova della data di costituzione del pegno allegando le risultanze dei propri libri contabili regolarmente tenuti. (Cass. 9-3-1973 n. 560).

Pur in presenza di un orientamento della giurisprudenza per il quale la regolare tenuta delle scritture contabili ed i controlli amministrativi che accompagnano l’attività bancaria inducono a ritenere che le annotazioni ivi contenute siano state effettivamente eseguite nella data indicata (Cass. 31-VIII-1984 n. 4738), parte della dottrina ha rilevato che l’annotazione sul libro vidimato deve essa stessa contenere gli estremi del pegno voluti dall’art. 2787 c.c..

Nella pratica, tuttavia, le questioni che si pongono con maggior frequenza riguardano aspetti giuridici di diritto comune che vengono in rilievo in sede concorsuale costituendo questa il più severo banco di prova delle garanzie: il momento del concorso, invero, è quello in cui più acuto e più esplicito diviene il conflitto tra chi tende al soddisfacimento preferenziale del proprio credito su una componente determinata del patrimonio del debitore e chi invece dovrà concorrere con gli altri creditori sull’attivo residuo.

Le questioni riguardano l’indicazione del bene sul quale la garanzia è costituita e l’indicazione del credito garantito, e si sono poste quasi esclusivamente con riguardo al pegno.

Con riferimento alla sufficiente indicazione del credito garantito si discute sull’idoneità della clausola di estensione della garanzia "ad ogni altro credito … già in essere o che dovesse sorgere a favore della banca verso il creditore, rappresentato da saldo passivo di conto corrente e/o dipendente da qualunque operazione bancaria."

Le diverse posizioni assunte sul punto possono essere ricondotte a tre indirizzi di fondo: quello che conduce a ritenere la nullità radicale della clausola in essere (c.d. omnibus); quello, per così dire intermedio, che pur riconoscendo la validità inter partes di una simile pattuizione, nega che essa abbia efficacia erga omnes , quantomeno ai fini dell’attribuzione del privilegio; ed infine quello che la ritiene del tutto valida tra le parti e opponibile ai terzi.

L’orientamento che mette in discussione la validità della clausola in esame giungendo ad affermarne la nullità ex art. 1418 c.c. appare oggi decisamente minoritario ed ha trovato seguito soprattutto presso il Tribunale di Torino.

Largo seguito ha, invece, l’indirizzo intermedio. Si sostiene, secondo questo indirizzo, che se la finalità perseguita dall’art. 2787 comma 3°, nel richiedere una "sufficiente indicazione del credito " risiede nell’attribuire certezza alla costituzione del vincolo pignoratizio (al fine di tutelare il ceto creditorio da possibili collusioni fra il debitore e il creditore titolare della garanzia), la clausola omnibus, che per il suo contenuto tipico rende impossibile una predeterminazione del credito garantito, appare incompatibile con l’esigenza espressa dalla norma, e non consente, quindi, di riconoscere al creditore pignoratizio un diritto di prelazione che potrebbe attribuirgli un’ingiustificata posizione preferenziale rispetto agli altri creditori (Cass. 19 –VI -1972 n. 1927; App. Milano 17-I-1986 in B.B.T.C. 1987, II, 439)

Infine trova seguito in giurisprudenza l’orientamento che ammette che l’oggetto della garanzia possa essere individuato anche mediamente il ricorso integrativo a fonti esterne all’atto di costituzione del pegno, sì da poter ritenere sussistente il requisito richiesto dall’art. 2787, 3° comma c.c. (Cass. 12.VIII.1991 n. 7794; Cass, 9.V.1979 n. 2648). Nell’ambito di questo indirizzo la giurisprudenza più recente ha tuttavia precisato che il riferimento a dati esterni all’atto di costituzione del pegno è consentito solo in funzione complementare, nel senso che essi non possano costituire fonte esclusiva dell’individuazione del credito, e solo a condizione che il richiamo per relationem sia espresso nello stesso atto costitutivo della garanzia (così Cass. 24.VI.1995 n. 7163 la quale sembra riconoscere, in linea di principio, l’idoneità del libro-fidi tenuto dalla banca a contribuire alla determinazione del credito garantito).

Nell’ambito di questo indirizzo in una sentenza meno recente si è affermato che il credito garantito risulta sufficientemente individuato qualora il pegno sia costituito a garanzia del saldo passivo risultante da tutte le operazioni di credito incluse in un rapporto di conto corrente in atto, precisandosi che "perché il credito garantito possa ritenersi sufficientemente indicato non occorre che esso venga specificato, nella scrittura costitutiva di pegno, in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi, bastando, a tal fine, che la scrittura medesima contenga elementi idonei a consentire la identificazione" (Cass. 13.IV.1977 n. 1380).

L’argomento principale addotto a sostegno della tesi della insorgenza della prelazione a favore del creditore anche nel pegno omnibus è il riferimento al principio generale fissato dall’art. 1346 c.c. il quale indicando nella "determinabilità" il limite minimo di idoneità dell’oggetto del contratto, sembra potersi collegare in funzione chiarificatrice, al precetto della "sufficiente indicazione" di cui all’art. 2787 che sarebbe quindi soddisfatto anche mediante l’individuazione per relationem del credito garantito.

La tesi contraria, invece, argomenta dalla particolare ratio sottesa all’art. 2787, comma 3° che è quella di evitare collusioni fra le parti del rapporto di garanzia a danno dei creditori concorrenti, per dedurre che, ai fini del riconoscimento del privilegio, essa richiede una determinabilità qualificata rispetto a quella richiesta dall’art. 1346 c.c. e dunque la specificazione, già nella scrittura, di tutti gli elementi che consentono l’individuazione del credito.

Con riguardo alla sufficiente indicazione delle cose costituite in garanzia richiesta dall’art. 2787 i problemi si sono posti, in modo particolare, sulla costituzione in pegno di titoli di credito, con specifico riferimento ai titoli del debito pubblico (BOT, BTP, CCT).

In relazione al pegno di titoli di credito, si registra un contrasto tra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità: i giudici di merito infatti sono orientati a ritenere che ad integrare il requisito della "sufficiente indicazione" dei titoli di credito dati in pegno non sia sufficiente la menzione del numero e dell’importo complessivo dei titoli, essendo anche necessario l‘importo e l’emittente di ciascuno di essi e la data di scadenza (Trib. di Bologna 8.1.1996 in B.B.T.C.1998, II, 177; App. Milano 8.VII.1986, ivi, 1988, 1998.II.71); mentre la Cassazione, sul presupposto che il requisito della sufficiente indicazione mira essenzialmente ad evitare che le parti del rapporto di pegno possano sostituire il bene costituito in pegno con uno avente maggior valore, ha affermato che il requisito della sufficiente indicazione deve ritenersi soddisfatto laddove sia menzionata la natura del titolo e l’ammontare del credito incorporato, senza necessità di ulteriori indicazioni (Cass 9.V.1979 n. 2648 e, più recentemente Cass. 7.VII.1999 n. 5562).

Un problema che in passato ha interessato la dottrina e la giurisprudenza è quello relativo alla costituzione in pegno di titoli di stato, quando questi non esistono materialmente, ed in genere dei titoli di credito "dematerializzati".

Benché il problema abbia perso attualità per effetto degli interventi legislativi che hanno introdotto anche nel nostro ordinamento la dematerializzazione piena degli strumenti finanziari, è tuttavia interessante ripercorrere rapidamente le soluzioni offerte perché offre l’occasione per riflettere sui problemi legati alla costituzione del pegno ed al fenomeno della c.d. dematerializzazione.

La giurisprudenza ha negato, in base al rilievo che "il pegno presuppone per la sua natura di diritto reale l’esistenza della res che ne è oggetto" (Trib. Torino I.VI.1991 inB.B.T.C. 1993, II, 336), che si possa costituire un pegno sui titoli non emessi ed ha dichiarato la inammissibilità di un pegno di titoli esistenti senza loro preventiva individuazione, dal momento che, "se la cosa destinata ad essere oggetto della garanzia non è individuata mancano anche i presupposti perché di essa possa essere data una sufficiente indicazione" (Cass. 27.VIII.1996 n. 7859). Proseguendo lungo questo iter logico, si è aggiunto che, "se il bene è confuso con altri facenti parte dello stesso genere, non potrà più parlarsi di diritto di proprietà del costituente il pegno, ma di diritto di credito avente ad oggetto un dato ammontare di titoli facenti parte del genus. E se il conferimento di titoli in gestione centralizzata è anteriore alla costituzione del pegno…, manca la possibilità di configurare in capo al costituente la titolarità di un diritto sulla res, sorto prima del pegno diverso di un diritto di credito, che consenta di individuarla ai fini della costituzione della garanzia.Il fenomeno qui descritto non è ignoto al legislatore, che lo ha disciplinato nella forma del pegno dei crediti…. e in quelle del pegno irregolare". (Trib. Torino 31marzo 1992 in Giur. Comm. 1993, II 675).

La dottrina, da parte sua, ha condiviso questi principi, salvo suggerire di battere la via del pegno di credito.

Il d. lgt. 24.VI.1998 n. 213 ha portato grosse novità in merito alla costituzione in pegni di strumenti finanziari dematerializzati. L’art. 34 prevede infatti che per gli strumenti finanziari dematerializzati, in caso di costituzione di vincoli sui medesimi, si accendono appositi conti e che i vincoli si costituiscono "unicamente" con le registrazioni nei medesimi.

Con riferimento alla legittimità di un pegno di cosa futura, la Cassazione pur in assenza di una specifica previsione normativa in tal senso, ne ha ritenuto l’ammissibilità sulla scorta dei principi generali. ( Cass- 1.VIII.96, 6969).

Secondo i giudici di legittimità, il contratto di pegno di cosa futura "si concretizza … in una serie di atti (l’accredito dei titoli sul conto corrente vincolato, il loro incasso ad opera della banca e la conseguente formazione del "saldo liquido creditore" costituito in pegno ) i cui effetti sono direttamente ricollegabili all’originario accordo contrattuale" (nel caso all’esame della Corte il debitore costituiva in pegno in favore della banca il "saldo liquido creditore" di un proprio conto corrente presso il medesimo istituto di credito, che sarebbe stato alimentato dall’incasso di titoli salvo buon fine). La Cassazione parla a questo proposito di "fattispecie a formazione progressiva, che trae origine dall’accordo stipulato dalle parti - idoneo di per sé solo, a produrre unicamente effetti obbligatori tra le parti stesse – e si perfeziona con l’effettiva costituzione della garanzia pignoratizia conseguente al venire in essere della cosa e alla consegna al creditore".

Non è riconducibile al pegno di beni futuri la clausola con la quale viene esteso il diritto di pegno della banca a tutti i titoli o valori di pertinenza del correntista già detenuti per qualsiasi ragione dalla banca o che dovessero a questa pervenire anche successivamente. Ed invero non si tratta qui di una concessione di pegno di beni futuri, ma di una concessione di pegno di bene indeterminati e determinabili soltanto con l’impossessamento, con la conseguenza che gli altri creditori potrebbero essere facilmente frodati, poiché basterebbe far passare in possesso della banca un qualunque titolo o oggetto per costituire il pegno.

Le clausole ABI in tema di anticipazione bancaria e di apertura di credito garantita dispongono che il costituente il pegno può sostituire durante il corso del contratto, con il consenso della banca, i beni dati in garanzia con altri aventi le stesse caratteristiche, i quali sono soggetti all’originario vincolo di pegno restando escluso ogni effetto novativo.

La giurisprudenza recentemente ha ritenuto "valido ed efficace il pegno rotativo, che ricorre quando le parti nel negozio costitutivo della garanzia, salvaguardando la continuità del rapporto con apposite convenzioni (c.d. patto di rotatività), prevedono la sostituzione, totale o parziale dell’oggetto del vincolo, a condizione che la previsione delle future ed eventuali sostituzioni dei singoli beni avvenga entro il valore dei beni originariamente costituiti in pegno" ( Cass. 28.V. 1998 n. 526). La giurisprudenza ha poi precisato che "perché la sostituzione possa essere operante, i nuovi beni devono essere consegnati al creditore e la consegna deve essere accompagnata da una scrittura avente data certa la quale contenga sufficiente indicazione delle cose oltre che del credito. Il patto serve a salvaguardare la continuità del vincolo e ad escludere ogni effetto novativo".

Ai sensi dell’art. 53 L.F. i crediti garantiti da pegno (o assistiti da privilegio con diritto di ritenzione artt. 2756 e 2761 c.c.) dopo l’ammissione allo stato passivo possono essere realizzati anche durante il fallimento. In questo caso peraltro, l’esercizio dell’azione esecutiva individuale deve essere autorizzato dal giudice delegato, chiamato nel contempo a determinarne le modalità . Il giudice delegato può quindi, negando l’autorizzazione, impedire l’esercizio dell’azione esecutiva individuale, quando contrasti con le esigenze dell’amministrazione fallimentare: deve, però, in alternativa, autorizzare il curatore a riprendere le cose in possesso del creditore pignoratizio o privilegiato ed a pagare il creditore; oppure disporne la vendita immediata nel fallimento. Risulta quindi che l’interesse del creditore, tutelato dalla norma che prevede l’esercizio dell’azione esecutiva individuale, è quello al pronto realizzo: se, infatti, il giudice delegato non autorizza l’esercizio dell’azione esecutiva individuale, né autorizza il pagamento del creditore, deve disporre nell’interesse della collettività dei creditori. La deroga al divieto di azioni esecutive individuali trova il proprio fondamento nell’opponibilità al fallimento della ritenzione, che spetta al creditore pignoratizio ed al creditore privilegiato ex artt. 2756 e 2761 c.c.: il giudice delegato non può pretendere la consegna della cosa pregiudicando il diritto di prelazione la cui sussistenza è condizionata alla ritenzione.

Il creditore assistito da pegno irregolare, invece, differenza di quello assistito da pegno regolare, secondo la Cassazione non può (per carenza di interesse) e non è tenuto ad insinuarsi nel passivo fallimentare, ai sensi dell’art. 53 L.F. per il soddisfacimento del proprio credito (Cass. Sez. Un. 14.V.2001 n. 202).

Il criterio di discrimine tra le due figure di pegno, la cui individuazione si rende necessaria allorchè la peculiare natura dei beni corrisposti in garanzia è suscettibile di determinare una diversa considerazione degli stessi in capo alle parti, secondo la dottrina va rinvenuto nella effettiva volontà delle parti del rapporto di garanzia, desumibile da indici obiettivi come la generica o specifica individuazione dell’oggetto materiale di tale rapporto (Chinè, Pegno irregolare e art. 53 della legge fallimentare in Giur. It. 1994,1, II° p. 1076).

4 – La revocabilità delle garanzie.

I diritti di prelazione su beni compresi nel fallimento possono essere esclusi attraverso il sistema revocatorio fallimentare che è volto a reintegrare la garanzia patrimoniale ed a consentire il soddisfacimento tendenzialmente paritario dei creditori.

Strumento di reintegrazione della garanzia è l’inefficacia dell’atto nei confronti dei creditori, che opera talora automaticamente, per effetto della dichiarazione di fallimento (artt. 64-65 L.F.), altre volte a seguito della pronuncia di revoca (artt. 66-69 L.F.).

L’inefficacia opera di diritto, automaticamente nei confronti degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento. Perché questa inefficacia operi non è richiesto alcun requisito soggettivo né del debitore fallito né del terzo ed è irrilevante la stessa sussistenza dello stato di insolvenza del debitore nel momento in cui l’atto gratuito fu posto in essere. Condizione perché questa inefficacia operi è soltanto il fatto che l’atto si sia perfezionato nei due anni anteriori al fallimento.

Consegue invece ad una pronuncia di revoca, che ha carattere costitutivo, l’inefficacia degli "atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie" ex art. 67 L.F.. A differenza dell’inefficacia di cui all’art. 64, questa richiede la ricorrenza dell’elemento soggettivo del terzo, costituito dalla conoscenza o meno dello stato di insolvenza del debitore, della cui prova la legge onera a seconda dei casi il curatore o il terzo.

Avendo il legislatore posto una disciplina diversificata per le due categorie di atti (a titolo gratuito o oneroso) occorre innanzitutto individuare quando la prestazione di una garanzia rientra nell’una o nell’altra categoria di atti.

L’individuazione della natura dell’atto invero si pone esclusivamente per le garanzie prestate per debiti altrui atteso che degli atti costitutivi di diritti di prelazione per debiti propri si occupa l’art. 67, in cui vengono in considerazione soltanto le prestazioni di garanzie onerose (Cass. 20-V-1987 n. 4608). Diversamente dalla revocatoria ordinaria ove la contestualità della garanzia con la creazione del debito rileva per la qualificazione dell’atto, nella revocatoria fallimentare l’art. 67, che disciplina la revocabilità delle garanzie reali prestate per debiti propri, utilizza la contestualità per stabilire su chi graverà l’onere della prova del presupposto soggettivo, nonché – in certa misura – in ordine al periodo sospetto legale.

La giurisprudenza individua la natura della prestazione di garanzia per debiti altrui sulla base del principio dettato dall’art. 2901 c.c. – secondo cui le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso quando sono contestuali al credito garantito – principio che trova applicazione anche alla revocatoria fallimentare (Cass. 2-IX-1996 n. 7997; Cass. 29-IX-1991 n. 10161 e più di recente Cass. 7-VI-1999 n. 5562 che ha riaffermato il principio che era stato, invece, disatteso da Cass. 28-V-1998 n. 5264). Nella decisione n. 5562 del 1999 la S.C. ha tuttavia precisato che l’art. 2901 mentre "fissa una presunzione di onerosità per le prestazioni di garanzie contestuali,…. nulla stabilisce per le prestazioni di garanzie non contestuali, rispetto alle quali sono facilmente ipotizzabili fattispecie in cui, ad onta della non con testualità, è evidente l’onerosità" sicché "in conclusione, la categoria delle prestazioni di garanzie non contestuali non è omogenea sotto il profilo della gratuità".

Il problema della gratuità o meno dell’atto si pone con peculiarità proprie nelle garanzie tra società inserite in un’organizzazione di gruppo. La giurisprudenza ritiene che una garanzia concessa a copertura di altra società del gruppo non sia di per sé atto gratuito per la società garante, pur quando essa non incassi alcun corrispettivo (Cass. 14-IX-1976 n.3150; Cass. 4-VI-1985 n. 3360): si ritiene infatti plausibile che nell’intreccio di rapporti economici fra le società che sono inserite nel gruppo, il garante ottenga altri vantaggi compensativi, anche indiretti, dal suo inserimento nel gruppo.

La dottrina mentre ritiene giustificabile giuridicamente che la controllante provveda a rinforzare economicamente il credito delle controllate, non ritiene così automatico che le garanzie rilasciate dalle controllate a favore della controllante o di altre società sorelle siano giustificate: esse sembrano esserlo solo se il credito elargito alla società madre o sorella viene poi impiegato per finanziare operazioni con la stessa società garante, non invece quando la provvista torna a vantaggio esclusivo di altre società del gruppo.

Allorché ad essere garante è una società, sulla sorte della garanzia prestata possono incidere anche le disposizioni di diritto societario.

Il riferimento è anzitutto all’art. 2384 bis che consente di far valere nei confronti dei terzi non in buona fede l’invalidità o l’inefficacia della garanzia prestata se estranea all’oggetto sociale. L’incompatibilità del rilascio della garanzia con l’oggetto sociale si verifica quando non si può ravvisare un rapporto di mezzo a fine fra la garanzia prestata e l’attività, quale risulta definita dallo statuto sociale. Ed al riguardo va sottolineata l’assoluta irrilevanza dell’esplicita previsione statutaria, sia formulata in termini specifici, sia con la generica autorizzazione a compiere "operazioni finanziarie", dovendo la strumentalità dell’atto al perseguimento dell’oggetto sociale valutarsi in concreto, in relazione all’attività ed all’interesse della società garante (Cass. 15/6/2000 n. 8159). Con riferimento a quest’ultimo aspetto la Suprema Corte ha precisato che "l’appartenenza della società ad un gruppo non legittima l’esercizio di qualunque attività estranea all’oggetto sociale solo perché a favore del gruppo o di altra società del gruppo, in quanto vi deve essere sempre un nesso tra attività e oggetto sociale" (Cass. 15/6/2000 n. 8159).

Con riguardo alla prova della mancanza di buona fede dei terzi alla quale l’art. 2384 bis condiziona l’opponibilità a costoro dell’estraneità della garanzia all’oggetto sociale, la giurisprudenza la ritiene fornita mediante una presunzione, consistente nella professionalità e nella conseguente solerte attenzione con cui gli enti creditizi erogano credito, onde agli stessi non può sfuggire l’eventuale incompatibilità della prestazione di garanzie per debiti altrui con l’oggetto sociale (App. Bologna 26-III-1992 e Cass. 13-II-1992 n. 1579 entrambe in Giur. Comm. 1993, II, 502).

Nell’ipotesi poi di fallimento della società garantita, se la garante è la società controllante si pone il problema inquadrabile nella tematica della sottocapitalizzazione delle società, e dell’ammissibilità di sopperire all’insufficienza del capitale sociale mediante finanziamenti (diretti o, tramite il rilascio di garanzie, indirette) dei soci, tematica che acquista particolare rilevanza proprio nell’ipotesi di insolvenza della società sottocapitalizzata, appunto perché i soci (in quanto) finanziatori sono anche creditori della società, ed hanno perciò diritto di concorrere con gli altri creditori. Di qui, i tentativi interpretativi di assimilare, attraverso una "riqualificazione" del rapporto, le ipotesi di finanziamento a quelle di conferimento. La riqualificazione del rapporto passa attraverso l’accertamento della reale natura giuridica del negozio che va fatto sulla base di una valutazione oggettiva dell’operazione economica, dell’interesse reale che le parti attraverso il contratto si sono proposte di soddisfare (causa concreta del contratto). Allorché lo scopo del presunto prestito - è stato rilevato dalla dottrina che ha sostenuto questa tesi - è di mettere durevolmente a disposizione della società nuovi mezzi economici in considerazione dell’interesse che il prestatore ha come membro della stessa, sicché la presenza di una causa societatis assume rilievo tale da assorbire la forma creditizia dell’operazione, la reale natura di conferimento non può non avere il sopravvento.

Gli atti costitutivi di garanzie per debiti altrui se gratuiti sono inefficaci ex lege ai sensi dell’art. 64 L.F.; se onerosi, perché contestuali, sono revocabili ex art. 67, 2° comma L.F. .

Gli atti costitutivi di diritti di prelazione per debiti propri,come si è già detto, non sono mai considerati atti a titolo gratuito e sono solo revocabili. Per questi atti, come già si è rilevato, la con testualità rileva per la qualificazione dell’atto come normale o anormale.

La anormalità delle garanzie non contestuali è evidente. Se è normale la costituzione di una garanzia all’atto della concessione del credito, non è normale che venga accordato credito allo scoperto e solo successivamente venga costituita una garanzia. La necessità, avvertita dal creditore, di tutelarsi con una garanzia dopo aver assunto il rischio dell’operazione creditizia induce a ritenere che egli si sia reso conto della sopravvenuta insolvenza del debitore e vale a fondare una presunzione legale di scientia decoctionis.

La garanzia non contestuale può essere stata costituita alla scadenza dell’obbligazione o anteriormente. Nel primo caso la costituzione della garanzia da parte del debitore costituisce sostanzialmente la contropartita della concessione di una dilazione da parte del creditore: l’atto è perciò valutato con minor rigore ed è revocabile se intervenuto nell’anno anteriore al fallimento (art. 67, 1° comma n. 4 L.F.). Se l’obbligazione preesistente non è ancora scaduta l’atto è valutato con maggiore rigore ed è revocabile se intervenuto nel biennio (art. 67 2° comma n. 3 L.F.).

La con testualità va intesa non in senso rigidamente cronologico, ma in senso funzionale e sussiste quando concessione del credito e costituzione della garanzia sono contestualmente voluti.

Un espediente utilizzato nella prassi per occultare la sostanziale non con testualità della garanzia è quello di costituire una garanzia contestualmente all’aumento di fido, peraltro già utilizzato. In questo caso non si dubita della non con testualità della garanzia (Cass. 29-VIII-1995 n. 9075).

Con riguardo alla revoca di garanzie ipotecarie prestate dal fallito si deve sottolineare che le banche si trovano in una condizione molto più vantaggiosa rispetto agli altri creditori. La disparità di trattamento è rappresentata dalla non revocabilità delle ipoteche accese a favore della banca per operazioni di credito fondiario ed edilizio, nonché dei relativi pagamenti. Si tratta, per vero, di una disciplina speciale, priva di una sufficiente giustificazione, soprattutto per le forme di finanziamento che non sono mutui di scopo e che si caratterizzano soltanto per la garanzia ipotecaria.

Nella prassi poi non è infrequente che il mutuo ipotecario venga accordato dalla banca per estinguere esposizioni pregresse, allo scopo di "convertire" un suo preesistente credito chirografario in un credito di identico ammontare ma assistito dalla causa di prelazione. Se non pare revocabile in dubbio l’antigiuridicità di questa operazione, in quanto elusiva del complesso delle norme intese a realizzare in sede fallimentare la par condicio creditorum, non sempre lineare è lo strumento in forza del quale viene sanzionato dalla giurisprudenza l’esito dell’operazione. In estrema sintesi, la Suprema Corte individua sostanzialmente due strumenti giuridici, giudicati come fungibili, per giungere al risultato della revoca in un modo o nell’altro dell’operazione. I due istituti utilizzati sono la simulazione ed il negozio in frode alla legge. Si utilizza la simulazione muovendo dall’assunto che nell’operazione in esame la volontà delle parti è tesa non a creare una nuova disponibilità per il finanziato, ma a creare una garanzia a tutela dell’originario credito; si inficia così di nullità il finanziamento asseritamente concesso solo in apparenza e, riferita la costituzione di garanzia all’esposizione debitoria già in essere, sia soggetta la stessa al regime revocatorio di cui all’art. 67 1° comma n. 3 o 4. Si richiama il negozio in frode alla legge per l’intento comune di eludere l’applicazione della norma che assoggetta alla falcidia della revocatoria "biennale" le garanzie non contestuale (Cass. 18-XI-1992 n. 12342, Cass. 22-III-1994 n. 2742; Cass. 29-IX-1997 n. 9520).

Dal contemporaneo utilizzo dei due strumenti giuridici si fa conseguire tanto la revoca della garanzia quanto la revoca dei pagamenti perché realizzati con messi anormali.

L’orientamento giurisprudenziale è criticato dalla dottrina la quale rileva che la natura (asseritamente) simulata del negozio di finanziamento non può che condurre alla relativa declaratoria di nullità ed il principio di accessorietà importa che la garanzia segue indeclinabilmente le sorti dell’obbligazione garantita, precludendo in radice la possibilità di ipotizzare un meccanismo legale che consenta una sorta di "trasferimento" a presidio del debito preesistente. Si è osservato poi che anche l’utilizzo del negozio indiretto non potrebbe condurre al risultato della revocabilità. Si rileva, infatti, che se la somma erogata con il mutuo è stata utilizzata per estinguere la pregressa esposizione e non già un nuovo finanziamento, l’ipoteca non potrebbe più garantire un rapporto obbligatorio già estinto. Secondo la dottrina proprio perché il trattamento preferenziale è stato dalla banca realizzato incamerando la somma erogata col nuovo finanziamento, la sanzione è quella della revoca della somma incamerata in quanto pagata con mezzi "anormali" ex art. 67 1° comma L.F..

Merita, in fine, di essere esaminato, sia pure rapidamente, il problema della revocabilità di alcune operazioni ricorrenti nella prassi bancaria aventi funzione di garanzia: la cessione di credito a scopo di garanzia e il mandato irrevocabile all'incasso.

La prima consiste nel negozio con il quale il credito viene trasferito al fine di garantire il cessionario dal rischio di inadempimento da parte dei cedente-finanziato. In base a tale accordo, se il cedente adempie, gli effetti dei trasferimento dei credito vengono meno (essendo la cessione come sottoposta ad una condizione risolutiva); altrimenti, la titolarità dei credito rimane in capo al cessionario, che ha l'obbligo di rimettere al cedente l'eventuale differenza tra l'ammontare dei credito riscosso dal debitore ceduto e quanto dovutogli dal cedente.

Nella cessione in garanzia il cessionario può rivolgersi indifferentemente al cedente o al ceduto e può pretendere il pagamento da quest'ultimo anche prima della scadenza dei debito principale.

Essendo la figura in esame utilizzabile per finalità solutorie e di garanzia impropria, ai fini della disciplina applicabile è necessario individuare l'effettiva volontà delle parti, in quanto in entrambe i casi potrebbe praticamente accadere che la banca si soddisfi sul credito ceduto. Secondo autorevole dottrina, la contestualità è indice, in linea di principio, di una funzione di garanzia, come pure il compimento della cessione, a fronte di un debito non scaduto, mentre alla cessione collegata ad un debito scaduto va attribuita funzione solutoria, salva la prova che il cedente abbia voluto costituire una tardìva garanzia (Bígiavi, Cessione di contributi statali per la ricostruzione e revocatoria fallimentare dei pagamenti, in Banca, borsa, titoli di credito 1958, 1, 287 ss.). Anche secondo la giurisprudenza, allorché vi è contestualità cronologica tra nascita dei debito verso la banca e cessione dei credito, la stessa sarà in garanzia (Cass. 12-VII- 1997 n. 7794 in Fallimento 1998, 27, Cass. 3-2-1987 n. 950 in Diritto fallimentare 1987, p. 692).

In questo caso, l'eventuale revocatoria dell'atto di cessione potrà essere fatta valere unicamente ai sensi dell'art. 67, c. 2 L.F. (revoca di atti costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati), mentre ove alla cessione venga attribuita funzione solutoria, la stessa potrà essere revocata ai sensi dell'art. 67, c. 1 n. 2 L.F. quale mezzo anormale di pagamento.

Con l'altra operazione, il mandato irrevocabile all'incasso, il correntista affida alla banca l'incarico di curare l'incasso dei crediti di cui egli è titolare e, una volta portato in compensazione il credito da scoperto di conto corrente con il debito ex mandato, accredita al cliente l'eventuale residuo.

A differenza che nella cessione dei credito, la tutela dei creditore non si realizza qui attraverso il trasferimento dei credito: al mandatario in rem propriam viene conferita semplicemente la legittimazione alla riscossione, mentre titolare dei credito rimane il mandante, che, a rigore, può chiedere direttamente il pagamento al proprio debitore o, addirittura, alienare a terzi il credito (salvo, naturalmente, dover poi rispondere al mandatario delle violazioni dei contratto con questo stipulato).

La giurisprudenza è sempre più incline a ravvisare nell'operazione in esame un mezzo anormale di pagamento. Il conferimento di un mandato irrevocabile all'incasso, "con contestuale facoltà di utilizzare le somme incassate per l'estinzione di un credito (benché non ancoro sorto) vantato dal terzo nei confronti dei mandante anche attraverso la compensazione delle rispettive ragioni creditorie - si afferma -producendo effetti sostanzialmente analoghi a quelli della cessione dei crediti, ha, oltre allo scopo di garanzia, una funzione essenzialmente solutoria, risolvendosi nella precostituzione di un mezzo certo di pagamento in favore del mandatario" (Cass. 4-X1-7998 n. 17057 in Fallimento, 7999, p. 1796; nello stesso senso Cass. 2-1X-1998 n. 8703, ivi, p. 7 789).

Da parte della dottrina s'è rilevato che mentre la natura solutoria dei mandato non pare facilmente contestabile nel caso in cui la procura ad incassare venga rilasciata in presenza di un debito scaduto, non altrettanto può dirsi con riferimento a contratti stipulati contestualmente alla concessione dei finanziamento o, addirittura, a crediti che debbano ancora venire ad esistenza (Ambrosini, La revocatoria fallimentare delle garanzie, Milano 2000 p. 789). Secondo la dottrina, varrebbero per il mandato irrevocabile all’incasso, le stesse considerazioni svolte in tema di cessione dei credito a scopo di garanzia, e cioè che al mandato irrevocabile all'incasso contestuale al sorgere dei credito (e, a fortiori, a quello che addirittura lo precede), va attribuita, in linea di principio, funzione di garanzia; eccezion fatta per il caso in cui il pactum de compensando si riferisca non soltanto a crediti coevi o futuri, ma indistintamente a tutti i crediti vantati dalla banca, e quest'ultima invochi la compensazione rispetto a crediti già esistenti della conclusione del mandato al momento.