Incontro di Studi

 

IMPRESA, RISPARMIO E INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA:

ASPETTI ECONOMICI E PROFILI GIURIDICI

 

Trieste, 24‑25 ottobre 2003

 

Il rapporto banca‑impresa

 

Prof. Francesco Cesarini

Università Cattolica

 

 

1. Premessa

 

Il rapporto banca‑impresa è una sorta di evergreen negli studi di finanza aziendale in generale e di economia delle aziende di credito in particolare. E pour cause dato che la ragion d'essere delle banche è, oltre allo svolgimento della funzione monetaria nel quadro delle politiche della banca centrale, quella di erogare finanziamenti in primis alle imprese per sostenerne l'attività corrente la crescita. Ancor oggi, infatti, nonostante il recente essor dei prestiti alle famiglie e la consistente dimensione dei finanziamenti a talune aree della Pubblica Amministrazione, le banche italiane erogano la maggior quota dei crediti a favore delle imprese e decisivo deve considerarsi il loro contributo al complessivo finanziamento di queste ultime.

 

Di questo tema mi sono occupato più volte in passato e, ormai molti anni fa, anche in un convegno svoltosi a Trieste, di cui purtroppo non sono riuscito a rintracciare le coordinate e i testi. Riprenderlo oggi in esame potrebbe essere esercizio non inutile anche per valutare gli effetti dell'ormai collaudato contesto operativo promosso dal Testo Unico Bancario del 1993 (d. lgs. 385/1993) e delle acquisizioni della dottrina e della prassi in materia.

 

La disciplina introdotta dal TUB ha offerto nuove e più ampie potenzialità per il raggiungimento degli obiettivi di efficienza operativa e redditività nel rapporto con le imprese. In particolare, eliminando taluni ostacoli posti dalla legislazione precedente, ha reso in linea di principio possibile una minor frammentazione di tale rapporto promuovendo:

 

1.  la despecializzazione temporale dell'offerta di credito da parte delle banche (credito a breve, medio e lungo termine);

 

2.   il superamento della specializzazione operativa degli intermediari;

 

3.   l'avvio della banca cosiddetta universale (rimozione del divieto di acquisizione di partecipazioni industriali e possibilità di svolgere attività di merchant banking).

 

Al tempo stesso l'attuazione della legge Amato‑Carli, l'avvio del processo di privatizzazione delle banche pubbliche e l'ondata di concentrazioni ‑ i tre aspetti non sono isolati ‑ hanno sia profondamente modificato l'assetto proprietario dei sistema, sia avuto impatti significativi sull'operatività concreta delle banche italiane.

 

L'intervento è organizzato in tre blocchi: il finanziamento d'impresa e la relazione creditizia (relationship lending); l'alternativa "mercato" e la convenienza relativa delle fonti (mercato vs. credito); alcuni dati sull'evoluzione del rapporto banca‑impresa in Italia nell'ultimo quinquennio. Seguono brevi considerazioni conclusive.

 

2. Approcci (alternativi?) al finanziamento d'impresa

 

           I canali di finanziamento delle imprese sono schematicamente distinguibili in due categorie:

 

1.  arm’s length finance, che riguarda la provvista di fondi attraverso i mercati sia obbligazionario sia azionario: in breve si tratta delle varie forme di intermediazione diretta nella quale l'intermediario finanziario (investment bank) interviene per facilitare l'accesso al mercato, ma di massima non eroga direttamente fondi all'impresa.

Anche il credito bancario, tuttavia, può, in particolari circostanze, assumere forme simili a quelle dell'arm’s length finance, ad esempio quando il rapporto banca­-impersa è discontinuo, parziale (eccesso di multiaffidamento, di cui si dirà più avanti) e/o si basa su singole operazioni (ad esempio di hot money) per le quali l'impresa ricerca soprattutto il minor costo possibile; questa modalità è anche nota come transaction lending.

 

2.    Informed finance, che riguarda la provvista di fondi attraverso il canale bancario e presuppone uno stretto rapporto tra prestatore e impresa fondato su informazioni prevalentemente non disponibili al pubblico: in breve, finanziamento bancario o intermediazione indiretta. Essa si  può configurare in due forme:

 

a)     relationship lending: è un approccio alla relazione banca‑impresa che si basa         sull'informazione inizialmente fornita dall'imprenditore e successivamente prodotta e accumulata dalla banca a partire da una varietà di fonti, non necessariamente pubbliche (ad esempio, relazioni finanziarie ‑ diverse dal rapporto creditizio ‑ precedentemente intrattenute con l'impresa). Esso tende a manifestarsi in rapporti creditizi di lunga durata, nell'ambito dei quali la gamma di servizi finanziari prestati dalla banca è tendenzialmente ampia (non solo credito, ma anche servizi transattivi, di investimento e di carattere fiduciario offerti all'impresa e all'imprenditore). Si rifletta sull'importanza della gamma di servizi prestati/utilizzati nell'ambito del rapporto.  L'impresa può, in teoria (e anche in pratica), avere rapporti  anche di lunga durata con banche, ma se l'intensità e la articolazione del rapporto (gamma di servizi...) sono limitate, la valenza qualitativa e informativa e l'efficacia di tali rapporti possono risultare ridotte;

 

b) asset‑based lending: lo smobilizzo dei crediti è una forma tecnica che normalmente rientra nell'ambito di una relazione creditizia più ampia (e quindi della relationship lending di cui sopra), ma può anche essere identificata autonomamente. Lo smobilizzo dei crediti ha, infatti, diversi vantaggi: si basa sulla garanzia di attività (i crediti) di  relativamente facile valutazione, può essere concesso in tempi brevi e il rientro dei fondi non dipende in primis dalla situazione finanziaria dell'impresa affidata/prenditrice, ma da un pool di altri soggetti la cui diversificazione tende ad abbassare il rischio del finanziamento.

 

I due principali canali di finanziamento, soprattutto grazie al rilevante sviluppo dei mercati di strumenti finanziari, tendono ad essere sempre più complementari: ad iniziativa dell'impresa, che può, affiancare, o parzialmente sostituire il credito bancario con il ricorso al mercato; ad iniziativa della banca, che può collocare sul mercato, attraverso tecniche di securitisation, pacchetti di crediti in essere alla propria clientela, trasferendone il rischio oppure può ottenere il rientro/ridimensionamento della propria posizione avvalendosi dei cash flow che nell'impresa cliente si determinano per effetto di operazioni di ricorso al mercato.

 

3. Relationship lending

 

Il relationship lending può essere definito come un rapporto molto stretto e di lunga durata tra banca e impresa caratterizzato da un forte interscambio informativo grazie al quale la banca dovrebbe essere in grado di conoscere approfonditamente l'impresa, le sue aree di attività e le sue potenzialità sulla base delle conoscenze e delle informazioni man mano acquisite nelle operazioni di affidamento e nell'espletamento dei servizi richiesti dall'impresa.

 

Gli aspetti rilevanti del relationship lending sono riconducibili al rapporto unitario (e quindi non frammentato tra numerosi intermediari finanziari aventi diversa specializzazione operativa), alla ricchezza del suo contenuto informativo ottenuto mediante interazioni ripetute realizzate con l'impresa nel corso dei tempo e su una pluralità di interventi finanziari (contro l'omogeneità tipologica ante T.U.B. del 1993: solo breve termine per le banche oppure solo lungo termine per gli istituti di credito speciale oppure solo singoli tipi d'intervento per gli intermediari specializzati).

 

L'adozione dell'approccio relationship banking nel rapporto banca‑impresa presenta numerosi e importanti vantaggi. Lo scambio di informazione privata (riservata) tra banca e impresa favorisce infatti lo svolgimento del rapporto creditizio in varie forme:

 

-          facilitando la comprensione dell'effettivo profilo di rischio dell'impresa con effetti positivi sia sul costo del finanziamento sia in termini di adattamento all'andamento prospettico dei cashflows;

 

-          aumentando la disponibilità di credito nei momenti di maggiore fabbisogno (ovvero riducendo i casi di credit rationing o gli effetti di politiche monetarie restrittive);

 

-          "sostenendo" l'impresa (in termini di condizioni di onerosità del credito) in caso di difficoltà finanziarie transitorie (smoothing intertemporale dei tassi);

 

-          flessibilità nel rapporto: maggiori possibilità di rinegoziare i termini del credito (scadenza, tasso) oppure di modificare la forma tecnica dell'affidamento. Tale caratteristica può risultare particolarmente importante quando l'impresa debba superare difficoltà gestionali e di mercato di qualche importanza che indurrebbero una banca non sufficientemente informata a interrompere il rapporto e a promuovere immediatamente azioni di recupero;

 

-          miglioramento della reputazione riconosciuta all'impresa quando gli operatori percepiscono che essa è collegata da rapporti di lungo periodo con intermediari di prestigio; tale miglior reputazione è fruibile soprattutto nell'operatività finanziaria dell'impresa: si pensi, ad esempio, ai rapporti con controparti estere o alla possibilità di accedere in prospettiva al mercato dei capitali attraverso emissioni di titoli.

 

              Il relationship lending non è peraltro privo di rischi e di costi per l'impresa:

 

-          costi di hold‑up: la banca, consapevole della stretta natura del rapporto, potrebbe sfruttare tale legame per aumentare il tasso d'interesse o per dettare all'impresa condizioni più onerose;

 

-          difficoltà e probabilmente tempi lunghi per costituire/rafforzare il rapporto con un'altra banca, ove per qualche motivo il rapporto privilegiato in essere risultasse insoddisfacente;

 

-          rischi e possibili costi in quanto l'impresa concede alla banca una sorta di monopolio informativo su informazioni private/riservate, anche suscettibili di penalizzare l'impresa se pubblicamente diffuse, e crea in tal modo le condizioni di un possibile conflitto d'interessi, soprattutto quando la banca è in rapporto anche con concorrenti diretti dell'impresa stessa.

 

A livello di sistema finanziario si possono configurare costi definibili di soft budget constraint se e nella misura in cui la banca fosse "costretta" a seguire l'impresa cliente, fornendole ulteriori fondi, anche quando non dovrebbe economicamente farlo.

 

In tale ipotesi il sistema finanziario nel suo complesso vedrebbe ridursi, per i troppo stretti legami tra banca e impresa, il proprio grado di efficienza nell'allocazione delle risorse tra i diversi soggetti economici finanziabili che non verrebbero ordinati esclusivamente in base a valutazioni di rendimento/rischio.

 

4. L'alternativa "mercato"

 

Le caratteristiche fondamentali delle operazioni di raccolta di fondi sul mercato ‑ alle quali si possono in larga misura assimilare i rapporti banca‑impresa del tipo transaction lending ‑ sono sufficientemente note per essere qui solo brevemente schematizzate.

 

Si tratta anzitutto di operazioni effettuate una tantum e per importi elevati che vengono solitamente erogati all'impresa in unica soluzione. Si richiedono perciò all'impresa buone capacità di previsione/programmazione dei propri flussi finanziari e la disponibilità ad accettare un costo non pienamente commisurato all'effettivo utilizzo dei fondi (come  per converso accade nelle tipiche operazioni di finanziamento bancario).

 

Se si ipotizza che l'operazione assuma la forma del ricorso al pubblico

risparmio, l'impresa emittente deve rispettare gli obblighi di disclosure erga omnes delle informazioni rilevanti per l'investitore sia nel momento iniziale (prospetto informativo) sia successivamente (informazione continua). E' possibile che per alcune imprese ‑ in particolare quelle attive in settori nuovi ‑ la diffusione analitica dei‑propri piani/prodotti necessaria per l'informazione degli investitori risulti sconsigliabile perché economicamente dannosa.

 

             Come è noto, poi, un'operazione di ricorso al mercato richiede la definizione ex‑ante e una tantum di tutte le condizioni contrattuali (durata, tasso di interesse, modalità di rimborso, ecc.) con le conseguenti rigidità e difficoltà qualora si presentasse in seguito la necessità di ristrutturare il debito.

Inoltre, nel caso di emissione di strumenti di debito, fa parte delle best practices ‑ non sempre, per il vero, seguite nel nostro paese, come ci ricordano le polemiche di queste settimane ‑ che l'impresa emittente richieda e ottenga un rating soddisfacente da un'agenzia qualificata. Il rating permette di minimizzare i costi di raccolta o per meglio dire di ottenere un pricing efficiente. Ma naturalmente il rating comporta costi monetari e informativi (questi ultimi tutt'altro che irrilevanti) che l'impresa deve sostenere, così come deve essere preparata ad affrontare in seguito i riflessi della pubblicità di eventuali downgrading/upgrading con conseguenze sulle condizioni delle successive operazioni di raccolta.

 

Date le caratteristiche strutturali delle operazioni, si può sinteticamente concludere che l'accesso al mercato mediante emissione di strumenti di debito tende ad essere riservato a imprese di grandi dimensioni/visibilità/reputazione.

 

Anche nel loro caso si rende comunque necessario l'intervento di una investment bank che offra la propria reputazione a garanzia dell'operazione e che metta a disposizione le proprie strutture e quelle delle banche consorziate per realizzare il collocamento dei titoli secondo le modalità di volta in volta più opportune. I costi di tali interventi vanno evidentemente ad accrescere gli oneri del finanziamento.

 

5. Fattori determinanti nella scelta tra finanziamento bancario e ricorso al mercato

 

A quali tipi di prenditori conviene maggiormente indirizzarsi verso forme di credito relationship‑based piuttosto che all'alternativa mercato?

 

Semplificando, si potrebbe rispondere che la dimensione d'impresa è la variabile critica. In realtà, i veri fattori discriminanti sono diversi, ma sono "oscurati" dalla dimensione in quanto si tratta di fattori con essa positivamente correlati: il grado di programmabilità dei flussi e la capacità concreta di pianificarli efficacemente, il livello di maturità dell'attività aziendale (in quanto influenza la possibilità di prevederne i tassi di crescita), la presenza di una struttura organizzativa formalizzata che consenta di scindere la proprietà dal management (con i conseguenti effetti positivi sul livello di trasparenza complessiva dell'impresa), la dimensione dei fabbisogni finanziari.

 

Quest'ultimo fattore, oltre a essere ovviamente correlato positivamente con la dimensione d'impresa, è strettamente legato alla opportunità (necessità) di ottimizzare i costi fissi che sono connessi alle operazioni di raccolta di mezzi finanziari sul mercato dei capitali. In tali circostanze i costi fissi dell'operazione (tra cui quelli connessi alla definizione degli strumenti e al loro collocamento) comportano dimensioni ottime minime non trascurabili. Berger e Udell (1998) identificano in circa USD 10 milioni il totale attivo minimo dell'impresa per un'offerta pubblica di azioni e in circa USD 150‑200 milioni il totale attivo minimo per un'offerta pubblica di strumenti di debito.

 

           Per le imprese di piccole dimensioni la scelta del finanziamento bancario è quindi una necessità, stante la non convenienza di forme di accesso diretto al mercato dei capitali. Ma quanti rapporti bancari è conveniente per un'impresa intrattenere? L'alternativa rapporto unico/rapporto plurimo è mal posta, in quanto per l'impresa ci sono indiscutibili vantaggi a intrattenere più di un rapporto contemporaneamente: ottenimento di una maggiore disponibilità di fondi; accesso a un profilo differenziato di servizi, offerte e capacità; possibilità di mettere in concorrenza fornitori alternativi di fondi e/o di servizi e riduzione dei conflitti che possono insorgere con il finanziatore in caso di rapporto esclusivo (come nell'esperienza della banca mista). Un eccessivo numero di rapporti è tuttavia dannoso, in quanto porta alla perdita di gran parte dei vantaggi connessi al relationship lending ricordati in precedenza ed è suscettibile di innescare comportamenti opportunistici sia nella banca (free riding nell'attività di monitoring: ognuno pensa che un'altra banca lo stia già facendo), sia nell'impresa (opacità, moltiplicazione dell'accordato e "rientri selettivi"). Forse anche in questa circostanza appare valido l'adagio secondo cui... in medio stat virtus: una banca principale (di fiducia), alcune (poche) banche, eventualmente specializzate, di supporto. E' la formula adottata quasi ovunque all'estero dalle imprese di taglia medio‑grande, mentre per le più piccole prevale il rapporto esclusivo con una banca, in genere quella locale.

 

6. Alcuni dati sulla recente evoluzione dei rapporto banca‑impresa

 

Cosa è accaduto negli ultimi 5 anni?

 

Facendo riferimento ai dati della Base Informativa Pubblica (BIP) riferiti al periodo 31 marzo 1998‑31 marzo 2003 della Banca d'Italia è stato possibile effettuare una breve analisi empirica di due variabili:

 

-          numero medio di banche per affidato, un indicatore del ben noto fenomeno del pluriaffidamento;

 

-          quota dei fido globale accordato dalla prima banca, che può considerarsi una proxy del ruolo della banca primaria.

 

I dati aggregati sono stati ripartiti in relazione alle classi di grandezza del fido globale accordato:

 

-          da euro 500.000 a euro 2,5 milioni;

 

-          da euro 2,5 milioni a euro 5 milioni;

 

-          da euro 5 milioni a euro 25 milioni;

 

-          oltre euro 25 milioni.

 

Si rileva un andamento sensibilmente differenziato tra piccole e grandi imprese(i dati sono riferiti alle classi di affidamento, ma queste sono a loro volta positivamente correlate con le dimensioni d'impresa):

 

    per le imprese più piccole, alla fine del primo trimestre 2003 il numero medio di banche affidanti è pari a 2,64 (5 anni prima era pari a 3,57) e la quota della banca principale è pari al 64% (5 anni prima era 57%);

 

    per le imprese più grandi, alla stessa data il numero medio di banche affidanti è pari a 10,47 (5 anni prima era pari a 13,35) e la quota della banca capofila è pari al 47% (5 anni prima era 35%).

 

                     In entrambi i casi si osserva un aumento della quota della prima banca e una riduzione del numero di banche affidanti; per le categorie dimensionali  intermedie i risultati sono i medesimi.

 

Considerato che per le imprese maggiori il mantenere una pluralità di relazioni con le banche è una necessità, la concentrazione nei rapporti che si è verificata negli ultimi 5 anni assume una particolare valenza. Degno di nota è il sensibile aumento della quota sul totale dei finanziamenti bancari attribuibile alla banca primaria che passa nel quinquennio dal 35% al 47%, aumento che potrebbe essere interpretato anche come un segnale di concentrazione del rischio verso i grandi prenditori.

 

Va inoltre osservato che i dati di inizio 1998 sono praticamente uguali a quelli che erano stati rilevati nel 1994. Pertanto, il processo di concentrazione dei rapporti sembrerebbe essersi interamente verificato negli ultimi 5 anni.

 

A determinare tale andamento hanno certamente contribuito i processi di concentrazione che sono stati realizzati nel quinquennio e che non solo hanno avuto un rilevante impatto sul numero di banche, ma hanno anche portato ad un'accentuazione dell'accentramento decisionale nei gruppi bancari. Stando così le cose, la riduzione del numero medio di banche affidanti potrebbe in parte dipendere dallo shock esogeno rappresentato dalla riduzione del numero di banche operanti, passate da 935 a fine 1997 a 814 a fine 2002, mentre le banche italiane appartenenti a gruppi (e quindi tendenzialmente sottoposte ad una politica dei fidi unitaria) sono passate nel medesimo periodo da circa 200 a 231.

 

7. Conclusioni

 

              Per le piccole imprese, la riduzione dei numero di banche affidanti può essere interpretata come effetto di una maggiore consapevolezza, da entrambi i lati del rapporto, dei costi e dei rischi dei multiaffidamento.

 

            Non basta, tuttavia, che l'impresa riduca il numero di banche. Per beneficiare appieno dei vantaggi della lending relationship, è inoltre necessario che l'impresa imposti rapporti basati sul lungo periodo e sulla piena apertura informativa e che la banca attui una discriminazione ragionata dei prenditori in relazione alla quantità e alla qualità delle informazioni accumulate nel corso del rapporto di credito.

 

              Per le grandi imprese, la percentuale dell'accordato totale riferibile alla prima banca è nettamente aumentata ed appare piuttosto elevata. La misura dell'effettiva dipendenza dell'impresa dal credito della prima banca andrebbe più correttamente calcolata sulla base di dati (peraltro non disponibili) sul credito utilizzato. Tuttavia non si può non auspicare un ricorso equilibrato a fonti bancarie e a fonti di mercato, spostando sul secondo canale la parte più stabile del fabbisogno finanziario dell'impresa. Un maggior ricorso al mercato, comportando necessariamente la compliance con regole di apertura informativa e di trasparenza, potrebbe avere indiretti effetti di miglioramento dell'efficienza dei sistema finanziario nel suo complesso.

 

              Un'ultima notazione in merito al potenziale conflitto tra le crescenti dimensioni delle banche italiane (in forza delle recenti aggregazioni) e la necessità di impostare i rapporti di finanziamento con le imprese su un intenso contenuto informativo. Al riguardo va rilevato che le principali banche hanno messo a punto importanti operazioni di riorganizzazione delle proprie strutture distributive anche al fine di tener conto della rilevanza di uno stretto rapporto con le imprese: si pensi alla definizione di aree territoriali dotate di autonomia decisionale e alla creazione di centri corporate dedicati. Le banche di maggiori dimensioni stanno quindi investendo nello sviluppo di strutture reIationship‑oriented, consapevoli della necessità di coniugare valutazioni analitiche avanzate (basate su sistemi di rating) con l'esigenza di radicamento territoriale e di consolidati rapporti di fiducia con la clientela.