Relazione convegno S.I.S.C.O. – Trieste 15.05.1999

"Banche e risanamento delle imprese"

 

"La politica giudiziaria del tribunale di Trieste nel governo della crisi dell’impresa"

1 ) Ringrazio la S.I.S.C.O. per avermi voluto dare l’opportunità di esporre i criteri che hanno orientato l’ufficio fallimentare di Trieste nella concreta gestione di alcune significative situazioni di crisi dell’impresa. Un’opportunità questa che va apprezzata per diverse ragioni. Sono convinto, invero, che la presentazione di esperienze dirette di gestione giudiziaria di crisi dell’impresa possa essere di qualche interesse non solo per gli studi di questa materia, ma anche - e direi soprattutto - per gli operatori e i soggetti che possono essere coinvolti, con ruoli e con interessi diversi, nella crisi dell’impresa. La presentazione di esperienze dirette, infatti, offre da un lato l’opportunità di stimolare un proficuo dibattito sui modelli di gestione della crisi dell’impresa da cui poter trarre spunti di riflessione e suggerimenti per favorirne l’efficiente svolgimento la cui necessità è sempre più intensa e urgente per la valutazione negativa che comunemente si ha delle procedure concorsuali ritenute troppo lente e troppo rigide; dall’altro lato soddisfa l’interesse degli operatori economici e dei professionisti a conoscere le effettive modalità di svolgimento delle procedure concorsuali.

E’, quindi, in questo spirito e con questi propositi che espongo alcune riflessioni che non hanno, è chiaro, alcuna pretesa di originalità ma riassumono ed elaborano opinioni diffuse alle quali s’è cercato di dare con i colleghi di sezione concreta applicazione grazie all’impegno ed all’elevato contributo degli avvocati e dei commercialisti che hanno accettato di offrire la loro professionalità nello svolgimento delle procedure. Naturalmente le responsabilità per eventuali errori o inesattezze che potranno emergere nella relazione, è solo di chi parla.

2) L’individuazione dei criteri ai quali l’ufficio fallimentare ha inteso ispirarsi nella sua attività parte da una valutazione della realtà socio-economica attuale in cui il sistema delle procedure concorsuali s’inserisce. Compito del giurista, del resto, è sempre quello di "un accorto esame della realtà", di applicare il diritto costituito "insensibile e sordo ai cambiamenti sociali ed economici" ad una realtà sempre diversa e mutevole.

Una rapida analisi della realtà economica mostra che l’attuale modello d’impresa è ben diverso da quello che aveva presente il legislatore del ’42. Mentre quest’ultimo era caratterizzato da una tendenziale corrispondenza del capitale di rischio con quello di credito, nell’impresa attuale, invece, il capitale di credito è preminente sul capitale di rischio. Da ciò consegue che in caso di insolvenza il costo dell’attività di rischio ricade in minima parte sul capitale di rischio e maggiormente su quello di credito (c.d. esternalizzazione del rischio d’impresa). La composizione del patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa è poi notevolmente diversa: nell’impresa di oggi la componente dei beni materiali è sempre meno rilevante, mentre peso crescente assumono i beni immateriali; il progresso tecnologico ha fatto assumere un’importanza sempre maggiore all’organizzazione del complesso produttivo ed alle capacità tecniche acquisite. Deve poi sottolinearsi che, diversamente dal passato, l’imprenditore ha sempre più spesso soltanto la disponibilità e non la proprietà degli strumenti di produzione. Spesso, inoltre, i fattori della produzione impiegati nell’impresa non sono disgregabili, conservano il loro valore finché utilizzati in un’attività produttiva, ma non sono suscettibili di essere rimossi, di essere spostati da una attività ad un’altra diversa attività. In definitiva la ricchezza dell’impresa si sostanzia non tanto nei macchinari e nei fabbricati, dei quali come s’è detto l’imprenditore potrebbe avere solo la disponibilità e non la proprietà, quanto piuttosto si realizza nella sua dinamica e cioè nella sua capacità a produrre ricchezza frutto dell’organizzazione di quei beni strumentali all’esercizio della attività economica.

In questo mutato quadro economico appare evidente che, in una situazione di crisi dell’impresa la preservazione del complesso produttivo costituisce un obiettivo di sicuro interesse per tutti i soggetti coinvolti nella crisi, mentre la disgregazione dell’azienda e la liquidazione atomistica dei singoli beni non può consentire ai creditori se non un riparto del tutto insoddisfacente e sacrifica del tutto gli interessi degli altri soggetti coinvolti. La cessazione dell’attività e la liquidazione dell’impresa in crisi non è più quella più conforme all’interesse sociale come si riteneva in passato sull’assunto che in questo modo si sarebbero liberate le risorse aggregate nell’azienda inefficiente per essere rimesse in circolazione e farle affluire verso impieghi più efficienti e produttivi con vantaggio, appunto, del sistema economico nel suo complesso e quindi dell’intera collettività. Oggi la realizzazione più soddisfacente dei diritti dei creditori potrà avvenire o attraverso una riorganizzazione della impresa in grado di riportarla al profitto, oppure attraverso la riallocazione dell’impresa a terzi quando essa è ancora funzionante in modo da consentire la realizzazione non solo dei cespiti reali, ma anche di quelli immateriali e di tutte quelle potenzialità, magari inespresse, suscettibili di valutazione economica che concorrono a determinare il valore dell’impresa. Che queste siano oggi le soluzioni più efficienti è, del resto, confermato dalla legge delega del 30.VII.98 n. 274 sulle regole dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, la quale prospetta per la sistemazione delle situazioni di crisi di imprese di certe dimensioni queste due soluzioni: la ristrutturazione economico-finanziaria dell’impresa e, in alternativa, la riallocazione dell’impresa a terzi.

Ma oltre che per i creditori, la conservazione dell’impresa rappresenta un sicuro vantaggio per i lavoratori che non possono essere soddisfatti sui beni dell’imprenditore perché hanno un’aspettativa al posto di lavoro che per loro conta assai di più della liquidazione dell’attivo e del successivo riparto.

A questi interessi specifici, la sempre più stretta interdipendenza del sistema economico consente di aggiungere un interesse generale alla valorizzazione del patrimonio dell’impresa, della sua capacità di produrre valore aggiunto, qualunque ne sia poi la distribuzione fra i soggetti più direttamente interessati alla vita dell’impresa: l’imprenditore, i creditori, i lavoratori.

Con riguardo alla realtà sociale, di cui già s’è fatto cenno, va poi rilevato che al manifestarsi di una situazione di crisi che determini l’incapacità o la difficoltà dell’imprenditore ad adempiere le obbligazioni assunte alle scadenze previste, tutti i soggetti coinvolti sono interessati in modo diverso, hanno convenienze diverse anche in considerazione del diverso grado di informazione che ciascuno ha della reale situazione che a quella crisi corrisponde. L’imprenditore è interessato a mantenere la gestione dell’impresa o a cederla se questo gli consente di trarre benefici personali a fronte della dissoluzione dell’impresa. I creditori, anche se tutti interessati alla massimizzazione dei recuperi, possono avere interessi diversi sui tempi e le modalità di recupero in relazione alla natura dei loro crediti, oppure ai sacrifici che inevitabilmente sono loro richiesti nel caso si ritenga percorribile un piano di risanamento.

Di fatto nella concreta dinamica delle relazioni tra i soggetti coinvolti nella crisi si registra una conflittualità che porta ciascuno di loro ad assumere linee di comportamento volte a massimizzare i propri interessi. Il sopravvento di uno di questi particolari interessi può impedire la realizzazione dell’interesse generale: la permanenza della gestione dell’impresa in capo all’imprenditore può impedire la valorizzazione del patrimonio che sarebbe invece possibile attraverso la riallocazione dell’impresa; così come la liquidazione affrettata di alcuni beni per tacitare i creditori più insistenti può comportare la dispersione del patrimonio aziendale.

 

3) In questo quadro socio-economico va analizzato il sistema delle procedure concorsuali il quale ha la funzione di regolare i conflitti di interessi derivanti dalla crisi dell’impresa, più precisamente dalla crisi finanziaria dell’impresa come risulta da fatto che l’attivazione di ogni procedura concorsuale postula l’impossibilità dell’imprenditore ad adempiere regolarmente le obbligazioni assunte; un’impossibilità presuntivamente temporanea (amministrazione controllata), oppure definitiva ed assoluta (fallimento, concordato preventivo).

Il sistema delle procedure concorsuali regola questi conflitti con una disciplina finalizzata essenzialmente al conseguimento dei diritti dei creditori sul presupposto che il credito, al quale ricorre largamente l’imprenditore commerciale, tanto più facilmente viene concesso quanto più pronta e sicura è la possibilità di ottenerne la restituzione. Sono i creditori, quindi, i veri destinatari della disciplina fallimentare.

Nel sistema delle legge fallimentare la crisi finanziaria viene affrontata alternativamente con strumenti che impediscono o consentono all’imprenditore di programmare e gestire la sistemazione delle crisi mantenendo l’amministrazione dell’impresa, sia pure sotto il controllo degli organi della procedura, se in possesso di determinati condizioni e requisiti soggettivi e trova il consenso della maggioranza dei creditori più esposti perché meno garantiti: quelli chirografari.

Le procedure si possono allora distinguere, come bene ha rilevato di recente il prof. Guglielmucci, in relazione non alla continuazione o interruzione dell’attività d’impresa, dal momento che anche nella procedura fallimentare, invero, vi può essere continuazione della attività d’impresa (da parte degli organi della procedura attraverso l’esercizio provvisorio d’impresa, o da parte di un soggetto che, dopo l’apertura della procedura abbia ottenuto l’affitto dell’azienda o abbia acquistato l’azienda), e neppure a seconda che siano finalizzate al salvataggio dell’impresa o alla sua espulsione dal mercato, poiché il salvataggio dell’impresa – inteso come salvataggio dell’attività economica – è possibile anche nel fallimento, ad opera di altro imprenditore che subentri al fallito nella titolarità dell’azienda, sibbene in relazione all’alternativa tra il soddisfacimento (anche parziale) dei creditori realizzato attraverso una sistemazione della crisi programmata dall’imprenditore e condivisa dai creditori, e il soddisfacimento (anche parziale) di questi ultimi attraverso la riallocazione dell’impresa attuata coattivamente con la sostituzione dell’ufficio fallimentare nell’attività gestoria del patrimonio dell’imprenditore fallito.

4) Sono questi, in estrema sintesi, gli strumenti che lo Stato ha predisposto per regolare i contrapposti interessi dei soggetti coinvolti, nella crisi dell’impresa.

E’ opportuno sottolineare che trattasi di strumenti giuridici predisposti a tutela di interessi privati e pertanto la loro attivazione è sempre nelle mani dei privati che possono ritenere più conveniente trovare una composizione fra i contrapposti interessi determinati dalla crisi dell’impresa nell’ambito della loro autonomia privata. Va comunque osservato che la rilevanza che generalmente hanno in questi casi gli interessi in conflitto, il numero elevato dei soggetti coinvolti, la possibilità che si realizzino disparità di trattamento tra creditori che non tutti sono disposti a tollerare, sono fattori che rendono estremamente difficoltosa, oltre che rischiosa per le responsabilità che possono derivare, una sistemazione privatistica.

Tuttavia, ove il ceto creditorio manifesti un atteggiamento volto a rimuovere la situazione di crisi dell’impresa attraverso sacrifici che reputa meno pesanti rispetto a quelli che potrebbe sopportare con l’attivazione di una procedura concorsuale, anche noi riteniamo, come già una nostra attenta collega ha avuto modo di rilevare traendo spunto da un importante caso conclusosi con una sistemazione stragiudiziale, che il giudice debba porsi il problema "se tuteli più adeguatamente il ceto creditorio un sollecita dichiarazione di fallimento, oppure uno slittamento dei tempi in modo da far maturare un accordo".

Una valutazione di questo tipo il Tribunale di Trieste è stato chiamato a compiere di recente nella fase pre-fallimentare relativa ad un agente di cambio che aveva svolto anche attività di intermediazione di strumenti finanziari, venutosi a trovare in stato di insolvenza. In questo caso la totale inosservanza da parte dell’agente di cambio della regola della separazione dei patrimoni, il contrasto tra la documentazione consegnata alla clientela e la situazione reale dell’impresa, avrebbero reso sostanzialmente inattuabile, in caso di fallimento, il sistema di tutela degli investitori previsto dal D.Lgs. 23-VII-1996 n. 415 imperniato proprio sulla separazione dei patrimoni, in quanto avrebbero precluso ai clienti l’esercizio della domanda di restituzione degli strumenti finanziari e avrebbero reso necessaria la liquidazione di tutti gli strumenti finanziari in concreto reperiti, sul cui ricavato avrebbero concorso per l’intero con i creditori chirografari, con conseguente possibilità di un lungo e costoso contenzioso che avrebbe necessariamente ritardato il momento del riparto. Di fronte a questa situazione che si prospettava con la dichiarazione di fallimento si è ritenuto opportuno "orientare la fase pre-fallimentare, così nella scansione dei tempi come nel contenuto dei provvedimenti, in guisa da favorire la soluzione privatistica della crisi" verso la quale il ceto creditorio aveva manifestato il proprio atteggiamento positivo attraverso una parziale riduzione dei propri crediti nella misura che consentisse di neutralizzare lo squilibrio patrimoniale e quindi consentire in tempi brevi il pagamento di tutti i creditori nella percentuale concordata.

5) Se, come è stato già detto, il problema delle crisi dell’impresa può essere efficacemente risolto con soluzioni che evitino la disgregazione dei mezzi di produzione organizzati dall’imprenditore insolvente e se la conservazione del patrimonio organizzativo e produttivo è spesso possibile solo attraverso la riallocazione dell’impresa a terzi che offrano garanzie di capacità imprenditoriale e di possibilità finanziarie che difettano al titolare, gli strumenti predisposti dalla legge fallimentare debbono allora essere applicati, se si vogliono conseguire risultati soddisfacenti, in modo da favorire un tempestivo ed efficace processo di riallocazione che valorizzi il patrimonio del debitore.

A questo fine ritengo che l’istituto della amministrazione controllata può svolgere un ruolo molto importante se si adottano interpretazioni che consentano maggiori spazi di operatività dell’istituto come la possibilità di alienazione dell’azienda nel corso della procedura o anche la possibilità di una continuazione della attività unicamente per consentire l’ultimazione degli affari in corso ed il soddisfacimento integrale dei creditori con il ricavato degli affari medesimi, anche se l’attività è destinata a cessare dopo la chiusura della procedura.

Cercherò di argomentare quest’ultima affermazione.

Dalla disciplina dell’amministrazione controllata emerge in modo chiaro che la procedura in esame rappresenta "un beneficio" concesso dall’imprenditore, ma "a tutela degli interessi dei creditori". Gli interessi tutelati sono quindi quello dell’imprenditore ad evitare la dichiarazione di fallimento e quello dei creditori per i quali assume preminente rilievo la possibilità di un maggior recupero dei propri crediti.

Ora, se la conservazione dell’attività di impresa è strumentale alla valorizzazione del patrimonio organizzativo e produttivo perché consente anzitutto il miglior recupero per i creditori e se questo può essere attuato consentendo all’imprenditore di ultimare gli affari in corso e così soddisfare integralmente i creditori col ricavato degli affari medesimi, non c’è ragione perché l’ammissione alla procedura debba postulare la continuazione dell’attività anche dopo la chiusura dell’amministrazione controllata dal momento che la continuazione dell’attività non è un interesse autonomo previsto e tutelato dalla legge fallimentare, ma è considerata il mezzo con cui realizzare quegli interessi espressamente tutelati: quello di consentire all’imprenditore di evitare il fallimento e quello di consentire ai creditori l’integrale recupero dei loro crediti. Va poi osservato che la necessità della continuazione dell’attività dopo la chiusura della procedura mentre, come s’è detto, non tutelerebbe alcun interesse, finirebbe, invece, per costituire un ostacolo proprio alla realizzazione di quegli interessi che il legislatore ha inteso tutelare.

Ora, che l’amministrazione controllata, in questi casi, rappresenti la soluzione più idonea a valorizzare il patrimonio del debitore insolvente credo sia percepibile da chiunque sia a contatto con la realtà operativa. La liquidazione ad opera del debitore nell’ambito dell’amministrazione controllata può infatti consentire risultati migliori e più soddisfacenti per i creditori di quelli che generalmente si possono conseguire attraverso il concordato preventivo con cessione di beni: Ciò perché mentre nel concordato preventivo il debitore si disinteressa, di regola, della liquidazione affidata al liquidatore giudiziale, non avendo interesse ad un maggior o minor realizzo atteso che è esdebitato qualunque sia la percentuale attribuita ai creditori chirografari, nell’amministrazione controllata, invece, ha interesse a massimizzare i risultati della liquidazione, che dovrà esaurirsi nel biennio, per poter pagare integralmente i creditori ed evitare il fallimento.

Significativa al riguardo è la sistemazione di una situazione di crisi attuata dal Tribunale di Trieste attraverso l’ammissione della società debitrice alla procedura di amministrazione controllata che si è chiusa con il pagamento integrale di tutti i creditori e la cessazione dell’attività della società debitrice. Una società, proprietaria di un immobile da ristrutturare, aveva stipulato con la pubblica amministrazione un preliminare di vendita dell’immobile ristrutturato. In caso di fallimento – altrimenti inevitabile perché la società non disponeva né di liquidità, né di credito – si sarebbe potuto procedere all’alienazione dell’immobile nello stato in cui si trovava soltanto ad prezzo rovinoso ed insufficiente persino al soddisfacimento dei creditori ipotecari. D’altra parte in caso di fallimento non vi erano i presupposti economici per un subentro nel preliminare e la ristrutturazione dell’immobile nell’ambito di un esercizio provvisorio dell’impresa. E’ stato perciò proposto, previo perfezionamento dei necessari accordi, un piano che prevedeva: a) la rinuncia, da parte delle banche creditrici agli interessi maturandi nella amministrazione controllata; b) la ristrutturazione dell’immobile ad opera di terzi con appalto a prezzo bloccato. Fissata in tal modo la situazione debitoria e fissati rigidamente i costi di ristrutturazione, si è potuto stabilire con certezza che il prezzo pattuito per l’alienazione dell’immobile sarebbe stato sufficiente a soddisfare integralmente i creditor concorsuali: ed in effetti, accordata l’amministrazione controllata e completata nel corso della procedura la ristrutturazione dell’immobile, al termine è stato riscosso il prezzo e l’intera esposizione debitoria è stata estinta. In tal modo è rimasto soddisfatto l’interesse del debitore ad evitare il fallimento e quello dei creditori al soddisfacimento dei loro crediti.

6) Ma la conservazione dell’impresa e il suo salvataggio, inteso in senso economico, sono possibili, come ho già detto, anche nel fallimento una volta che la conservazione dell’unità produttiva sia concepita, come opportunamente hanno rilevato di recente i colleghi De Robertis e Liccardo, non come "ideologica propensione" al mantenimento a tutti i costi di imprese in dissesto delle quali si è polverizzato ogni valore organizzativo, sibbene come strumentale, ove ancora possibile, ad una efficiente riallocazione dell’impresa in capo a nuovi soggetti che ne corrispondano il prezzo destinato al soddisfacimento dei creditori e ne proseguono l’attività realizzando così le aspettative di coloro che hanno interesse alla vita dell’impresa.

Di fronte a situazioni patrimoniali caratterizzate sempre più spesso da valori immobilizzati (partecipazioni, crediti), dalla presenza sempre più crescente di beni immateriali, di valori quindi di problematica realizzazione e di modesto recupero con modalità liquidative atomistiche, la procedura fallimentare deve allora puntare in questi casi non direttamente alla "liquidazione dell’attivo", ma, anzitutto alla riorganizzazione del patrimonio fallimentare, che rappresenta il mezzo più efficiente, non solo sotto il profilo economico, attraverso il quale realizzare la massimizzazione degli attivi patrimoniali che, appunto costituisce il fine della procedura.

Solo così, del resto, si valorizza e si esalta il carattere che più spiccatamente viene a presentare il fallimento e che lo differenzia dall’esecuzione individuale: "l’amministrazione del patrimonio fallimentare" (art. 31L.F.).

A questi principi il Tribunale si è ispirato nella gestione della procedura fallimentare della holding di un gruppo alla quale facevano capo, direttamente o indirettamente, più di cento società.

Le caratteristiche più rilevanti di questa procedura si possono così riassumere.

All’apertura del fallimento la situazione patrimoniale mostrava che l’attivo della fallita era costituito quasi esclusivamente dal valore delle partecipazioni sociali e da crediti verso le controllate; il passivo, invece, era rappresentato in misura prevalente da debiti verso le banche, in misura notevolmente ridotta da un debito verso obbligazionisti ed ancora più ridotta da debiti verso società controllate. La fallita si trovava poi esposta per fideiussioni prestate a favore di società del gruppo con prevedibile, quindi, dilatazione del passivo, soprattutto perché la quasi totalità delle società controllate versava in stato di illiquidità.

In questa situazione di dissesto del gruppo, l’azionamento dei crediti vantati verso le controllate avrebbe avuto il solo effetto di accelerare la dichiarazione del loro fallimento con prospettive di realizzo assai limitate e lontane nel tempo essendo legate alla liquidazione dello attivo di più di cento fallimenti, pari al numero delle società controllate che sarebbero fallite, mentre, anche per la moltitudine dei rapporti con gli istituti di credito che s’erano intrecciati tra le società del gruppo, non era ipotizzabile alcun significativo realizzo delle partecipazioni.

In tale situazione, gli obiettivi fondamentali da perseguire erano due: in primo luogo garantire la continuità dell’attività produttiva delle società controllate al fine di preservare il valore economico delle aziende; in secondo luogo mantenere in bonis le società operative in modo da consentirne la vendita ed il realizzo almeno parziale dei crediti vantati nei loro confronti.

Per realizzare il primo obiettivo, gli organi fallimentari hanno autorizzato gli amministratori delle controllate alla conclusione di contratti di affitto di azienda mediante gare informali, svolte sotto il controllo del giudice delegato del fallimento, prescrivendo altresì che gli affittuari presentassero offerta irrevocabile d’acquisto ad un determinato prezzo e che in caso di sottoposizione a procedura concorsuale delle società controllate, l’affittante avrebbe potuto recedere dal contratto.

Per realizzare il secondo obiettivo (conservazione in attività e, quindi, vendita delle società operative), era indispensabile l’intervento delle banche creditrici che si sarebbe dovuto concretizzare nella conversione di parte dei loro crediti in capitale delle società finanziate.

Questa operazione, del resto, si presentava conveniente anche per il ceto creditorio bancario il quale, attraverso il sacrificio di una parziale rinuncia e della postergazione di una parte dei loro crediti a quelli degli altri creditori, avrebbe potuto realizzare, in tempi tollerabili, la parte residua dei crediti conseguendo in definitiva una percentuale maggiore delle loro originarie ragioni creditorie, a fronte di sicuri fallimenti delle controllate con conseguenti modeste aspettative di riparto in tempi non prossimi, congiunti alle inevitabili azioni revocatorie che i creditori delle procedure avrebbero potuto attivare.

I fallimenti a catena delle società del gruppo avrebbero inoltre imposto costi diretti e indiretti: basti pensare, con riferimento ai primi, ai compensi dei curatori nominati per le varie procedure e, soprattutto, alle spese legali per le cause che sicuramente ogni curatore avrebbe avviato per ricostituire la garanzia patrimoniale per ciascuna società fallita, all’esito delle quali si sarebbe avuta una mera partita di giro nell’ambito del gruppo; quanto ai costi indiretti, basterà considerare lo svilimento dei complessi aziendali conseguente al fallimento.

L’operazione che si prospettava avrebbe comportato inoltre apprezzabili conseguenze sul trattamento cui erano esposti i creditori finanziari del gruppo venendo a realizzare un trattamento paritario tra gli stessi, soprattutto neutralizzando gli effetti della c.d. postergazione strutturale di cui avrebbero risentito i creditori della capogruppo per effetto della composizione del suo patrimonio, caratterizzato da beni di secondo grado, quali sono appunto le partecipazioni, dalla cui realizzazione si sarebbero soddisfatti dopo l’integrale pagamento di tutti i creditori delle società alle quali le partecipazioni si riferivano. Le banche creditrici hanno costituito tra loro una società alla quale hanno ceduto al valore nominale tutti i loro crediti chirografari e non autoliquidanti verso le società del gruppo, successivamente anche il fallimento ha ceduto alla nuova società i propri crediti, ottenendo in corrispettivo una partecipazione pari al 34% nel capitale sociale delle sub-holding e il pagamento dei crediti verso le controllate attraverso gli incassi che sarebbero derivati dalla liquidazione dell’attivo della nuova società con preferenza rispetto ai crediti delle banche. A seguito di queste operazioni la nuova società, divenuta la principale creditrice delle società operative, ha utilizzato i crediti per convertirli in capitale delle sub-hoding nella misura necessaria per ripianare le perdite subite, ricostituirne il capitale sociale e consentire l’uscita dalla procedura di amministrazione controllata alla quale erano state ammesse.

Nella procedura in esame, la ristrutturazione del gruppo tramite l’attivo coinvolgimento del ceto creditorio ha consentito la realizzazione in cinque anni, di quattro progetti di riparto parziali che hanno permesso il pagamento del 62,5% del passivo chirografario, mentre in assenza del piano di risanamento era ipotizzabile una percentuale del 10% ed in tempi lontani. Ma ha consentito anche la conservazione dei complessi produttivi e dei relativi posti di lavoro, soddisfacendo così entrambe le esigenze che scaturiscono dalla crisi dell’impresa: la conservazione dei livelli occupazionali e la tutela dei creditori.

7) Le considerazioni che ho cercato di sviluppare e l’esame delle concrete gestioni di situazioni di crisi rappresentate confermano, dunque, che la conservazione dell’unità produttiva costituisce un obiettivo di sicuro interesse per tutti i soggetti coinvolti, perseguibile, nella realtà pratica, o attraverso la ristrutturazione economico e finanziaria della impresa quando sono provate concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività aziendali, oppure attraverso la riallocazione, volontaria o coattiva, dell’impresa a terzi.

Ma perché possano essere assunte iniziative capaci di valorizzare il patrimonio costituito dall’impresa, è essenziale che l’attivazione delle procedure concorsuali avvenga tempestivamente, prima che si sia verificata la disgregazione dei mezzi di produzione organizzati dall’imprenditore. Nella pratica, invece, l’attivazione delle procedure concorsuali avviene quasi sempre con notevole ritardo. L’inefficienza del sistema risente in larga misura della inerzia di tutti coloro che sono legittimati ad avviarne il funzionamento. Molto spesso le possibilità di sopravvivenza dell’impresa o di recupero dei valori aziendali risultano minime per l’inerzia dei creditori, soprattutto di quelli finanziari, che non richiedono il fallimento dell’imprenditore e non inducono quest’ultimo a chiedere una procedura preventiva. Al di là della specifica finalità recuperatoria o della preoccupazione di difendersi dalle azioni revocatorie per i pagamenti ricevuti, l’azione svolta dalle banche creditrici, nella realtà pratica, non sembra rivolgersi ed agevolare il risanamento dell’azienda in crisi, eventualmente tramite il trasferimento ad altro imprenditore. Questo atteggiamento conduce alla dissoluzione con conseguente definitiva perdita dei posti di lavoro e con gravissimi danni per i creditori. La situazione di crisi, infatti, generalmente, spinge l’imprenditore ad effettuare operazioni a danno dei creditori siano esse volte a distrarre risorse dall’impresa o al compimento di operazioni negoziali ad alto rischio. All’approssimarsi della situazione di insolvenza l’imprenditore è portato a porre in essere operazioni particolarmente rischiose in quanto beneficia degli eventuali risultati positivi, mentre le perdite vengono scaricate sulle possibilità di recupero dei creditori. Il ritardo nell’attivazione delle procedure conseguentemente aumenta le possibilità di conflitto tra i creditori e di realizzazione dei quegli atti pregiudizievoli ai creditori che vanno "sanzionati" una volta dichiarato il fallimento, con dilatazione, quindi, del contenzioso e dei tempi della procedura. La dissoluzione dell’impresa polverizza il valore dei singoli beni con conseguente difficoltà allocativa degli stessi e riduce al minimo l’attività amministrativa degli organi fallimentari ai quali non resta che l’obbligo di attivare quelle disposizioni che "sanzionano" l’attività dell’imprenditore insolvente.

E’ necessario allora che le banche seguano con attenzione la vita dell’impresa finanziata intervenendo tempestivamente al profilarsi di uno stato di crisi, nella ricerca con l’imprenditore delle soluzioni che consentano il ripristino dell’equilibrio economico e/o finanziario oppure provocando l’attivazione di quegli strumenti giudiziari che consentano un rapido ed efficiente processo di riallocazione del complesso produttivo, cooperando attivamente con gli organi fallimentari nell’esecuzione di tali processi. In altre parole le banche debbono convincersi che le informazioni da esse acquisibili sulla reale situazione economica-finanziaria dell’impresa debbono essere utilizzate non, come spesso accade per praticare all’imprenditore un peggioramento delle condizioni per ottenere credito o per tentare affannosi recuperi dei crediti erogati, ma per far avviare tempestivamente sotto l’egida dell’autorità giudiziaria il risanamento dell’impresa in crisi da parte dello stesso imprenditore oppure per attuare la riallocazione dell’impresa a terzi. Diversamente non si possono pretendere dalle procedure concorsuali risultati strepitosi che del resto neanche le soluzioni stragiudiziali potrebbero garantire.

D’altra parte, chi è chiamato per legge al governo della crisi dell’impresa deve acquisire la consapevolezza che questo compito non può essere svolto efficacemente utilizzando concezioni formalistiche del diritto elaborate dalla analisi giuridica tradizionale. Nell’affrontare questo compito, la comprensione della realtà socio-economica in cui s’inseriscono le regole giuridiche deve precedere il momento del decidere per assicurare decisioni che abbiano una giustificazione razionale e siano le più efficienti tra quelle potenzialmente atte a perseguire scopi di giustizia.